I 150 anni dell’Unità d’Italia costringono il paese a una retorica nazionalista che non gli appartiene. L’italiano non ha mai avuto rispetto per la propria vicenda nazionale e qui si proverà a spiegare perché non gli si può dare torto: l’italiano non può avere rispetto di se stesso, un secolo e mezzo di storia unitaria ha rappresentato un affastellarsi di vergogne, con qualche eccezione che non redime la regola.
Intendiamoci, non che non ci sia grandezza nella storia italiana: ce n’è e molta, ma è tutta pre-unitaria. C’è la grandezza di Roma, della sua Repubblica e del suo Impero, della fondazione del diritto e dei capolavori urbanistici e architettonici; c’è la grandezza della radice cristiana, dalla abbazie medievali culle di cultura e di sapere, alla maestà del papato, punto di riferimento per millenni di miliardi di cattolici di tutto il mondo; c’è la grandezza dell’arte italiana, da Giotto a Dante, dall’incredibile vicenda rinascimentale a personaggi assoluti come Leonardo da Vinci, fino alla lucidità di Galileo e alla intelligenza ultramoderna di Cesare Beccaria.
Poi, nel mondo accade qualcosa di davvero enorme: la Dichiarazione d’Indipendenza americana precede di quasi un secolo il 17 marzo del 1861 che tanto ci sta a cuore ed è un documento di profondità strepitosa (“we hold these thruts to be self-evidente, all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness” e traducetevela da voi, che la versione originale è troppo bella); la Francia avvia una stagione rivoluzionaria che segnerà l’Europa per sempre; la Gran Bretagna, che ha da secoli un Parlamento operativo che affianca il Re, avvia una rivoluzione industriale e tecnologica che cambierà la storia globale e creerà le premesse dell’attuale benessere occidentale.
E l’Italia? In Italia la parola “rivoluzione” non è mai andata di moda e quanto ci fosse bisogno di una rivoluzione lo sanno tutte le generazioni che si sono succedute dall’Ottocento a oggi. Il processo risorgimentale è stato una semplice annessione al regno dei Savoia, consentita e sostanzialmente voluta da potenze straniere (francesi e inglesi). Non un movimento di popolo, ma una procedura messa in moto da una élite a da quella stessa élite gestita, anche malamente: basti pensare alla tragedia meridionale, alla vergogna nazionale della guerra al brigantaggio, all’assenza di qualsiasi decente forma di democrazia quando negli Stati Uniti già da più di cent’anni si eleggeva un presidente con il suffragio universale maschile.
L’inno di Mameli è brutto e retorico, non ci sarà nessun Roberto Benigni capace di rivalutarlo agli occhi del mondo. La Marsigliese, il God Save the King e persino l’infame Deutschland Uber Alles sono simboli di un popolo intero unito nell’amore per la propria storia patria. Il nostro è un inno che nessuno conosce a memoria, che non si studia nelle scuole, che non si canta se non per qualche istinto pallonaro quadriennale. L’inno di Mameli è il simbolo della pochezza della storia risorgimentale: tante parole gonfie (l’Elmo di Scipio, la vittoria che schiava di Roma, stringiamci a coorte) e una marcetta a far da sottofondo. Sostanza, poca. Popolo, niente.
E dopo il Risorgimento? Vogliamo parlare del Meridione saccheggiato e reso schiavo delle criminalità varie? Delle classi dirigenti imputridite elette per censo per tutto l’Ottocento? Del colonialismo italiano, patetico e feroce? Del vergognoso voltafaccia della prima guerra mondiale e di Caporetto? Dei generali incapaci e delle fallimentari trattative di pace a Versailles? Dei liberali inetti che diedero spazio all’affermarsi del primo fascismo? Dei Savoia, vogliamo parlare dei Savoia?
Parliamo dei Savoia, della nostra casa regnante. In Gran Bretagna il popolo si unisce attorno alla Corona, in ogni evento di festa o di lutto che sia; in Spagna i Borbone sono stati il simbolo per andare oltre la dittatura franchista e avviare una nuova stagione di democrazia. In Italia la casa regnante, dopo aver ottenuto l’annessione degli staterelli nazionali, ha fatto di tutto per coprirsi solo di vergogna. Vittorio Emanuele III che dà il via al fascismo, che firma le leggi razziali, che abbandona il suo popolo nella difficoltà della guerra, che rende possibile l’onta dell’8 settembre. Per fortuna ci è stato risparmiato di avere per re un Vittorio Emanuele IV che spara fucilate ai turisti e l’Emanuele Filiberto che sta bene a fare programma tv con Pupo.
Il fascismo è una pagina di vergogne che è persino superfluo aprire. La vergogna somma è quella delle piazze strapiene, rigurgitanti consenso per Mussolini e basta fare una passeggiata sulla sua tomba a Predappio per capire come questo paese sia irredimibile. I tedeschi provano un’onta enorme per l’essere stati governati da Adolf Hitler, per averlo appoggiato: nessuno immaginerebbe possibile aprire un pubblico registro dove quotidianamente si compongono odi al Fuhrer; nessun politico potrebbe mai essere legittimato se nella sua carriera fosse rintracciabile una radice filonazista. Da noi la nostalgia del fascismo è vissuta prima in un partito tranquillamente presente in Parlamento per decenni e ancora oggi un suo leader è considerato persona credibile, messo alla guida della più importante istituzione elettiva, la Camera dei Deputati.
Dopo la vergogna del fascismo, dell’assassinio degli oppositori politici, della chiusura dei partiti e dei sindacati, della cancellazione della libertà di stampa, della guerra e della difesa della razza, della deportazione degli ebrei, dell’obbligo della fedeltà al regime richiesto a tutti gli accademici e uomini di scienza e di sapere (e tutti, con pochissime eccezioni, si obbligarono), della consegna mani e piedi al nazismo, dell’orrenda guerra civile, spuntò la vergogna del sangue dei vinti. E la retorica della Resistenza, altra retorica nazionale non percepita come reale perché tutti conoscono la verità, che l’Italia fu liberata dagli Americani che mandarono decine di migliaia di ragazzi a morire per noi mentre quel paese che era tutto iscritto al Partito nazionale fascista si scopriva tutto antifascista e partigiano.
Cominciò la storia repubblicana, nella disperazione e nella fame, condizioni in cui l’italiano dà il meglio di sé. E in effetti la stagione della ricostruzione del paese fu splendida (sempre grazie ai denari di Marshall, inizialmente almeno, però) e l’Italia seppe trasportarsi dall’inedia al vero benessere, grazie a classi dirigenti per una volta all’altezza del difficile compito, da Alcide De Gasperi al primo governo guidato da Aldo Moro. Che si dimise nel giugno del 1968. E ricominciarono i guai.
Sempre sull’onda di quel che avveniva all’estero, pure in Italia ci si ribellava. Ma quel fiume di energie, invece di alimentare un mare di opportunità, fu l’ennesima occasione per costruire cricchette e sei-politico, immeritocrazia e pian piano, altra cretina violenza, spontanea e indotta. Terrorismo, strategia della tensione, Brescia, piazza Fontana, Italicus, via Fani, Bologna, Ustica, Brigate rosse, Nar, servizi deviati, banda della Magliana, Giorgieri, Ruffilli. Un quindicennio di omicidi idioti, di stragi impunite, di veleni e sospetti. Poi, per fortuna, a un passo dal baratro l’Italia dà un colpo di reni. Ma può essere questo colpo di reni confuso con una grande storia nazionale? No, è una storia nazionale di vergogne e di baratri sfiorati.
Raccontare l’ultimo ventennio non è neanche storia, è cronaca. La cronaca di una disfatta. Il malaffare imperante e diffuso ovunque di Tangentopoli, le stragi di mafia e Capaci e via D’Amelio, le pulsioni separatiste e l’idiozia di una realtà territoriale (la Padania) totalmente inventata, la crisi complessiva della democrazia, il plutocrate al governo del paese, la gerontocrazia imperante e le caste che succhiano risorse alla cosa pubblica, il neofeudalesimo, l’immobilità sociale, la disoccupazione che galoppa, l’evasione fiscale più vergognosa del mondo occidentale, la droga a fiumi che finanzia Cosa Nostra, camorra, ‘ndrangheta, sacra corona unita e ci rende noti del mondo con un solo nome: mafiosi. Questo abbiamo esportato: mafia e decine di milioni di emigrati, la cui finale coda sono le decine di migliaia di cervelli in fuga da questo nostro paese, che non premia il talento e dove vige l’immeritocrazia consociativa.
Bisogna conoscere, non qualcosa, ma qualcuno. E’ la base della cultura mafiosa, è la base del sistema sociale italico attuale.
Questi sono i centocinquant’anni della storia dell’Italia unitaria. Certo, ci sono dettagli positivi che ho dimenticato: l’Italia unita ad aiutare Firenze nei giorni dell’alluvione, ma ci sono gli ingegneri italiani che violentano consapevolmente il territorio e fanno uccidere migliaia di persone al Vajont; il Friuli ricostruito dopo il terremoto, ma ci sono i miliardi saccheggiati nella ricostruzione dell’Irpinia; la nazionale che vince quattro mondiali di calcio, ma due li ha vinti facendo il saluto romano, un terzo per l’allinearsi dei pianeti (lo stellone italiano è stranoto nel mondo), l’ultimo mentre scoppiava Calciopoli; la famiglia italiana che risparmia più di qualsiasi altra al mondo, ma il debito pubblico italiano è il più pesante del mondo in rapporto al Pil; l’Italia eccellente del made in Italy, ma è la stessa Italia all’ultimo posto nell’attrazione di investimenti esteri.
C’è poco da festeggiare, credetemi. Un Risorgimento che è un’annessione ai Savoia favorita dagli stranieri, una rivoluzione senza popolo non si festeggia. Altro che Viva l’Italia, altro che De Gregori e Cazzullo: abbasso questa Italia, che crepi presto e ne rinasca un’altra, che premia il merito e spazza via le cricche, che ha giovani leader e innova invece di ricordare, che si fa rispettare nel mondo e non è più una barzelletta. Che crepi l’Italia di questi centocinquanta anni di vergogne, che ne rinasce un’altra per i prossimi, sperando che nel 2061 ci sia finalmente qualcosa di cui andare veramente orgogliosi.
Mario Adinolfi