L’Isis perseguita i profughi dimenticati dall’Europa

MIGRANTE BAMBINOIl teschio fra le sterpaglie con il buco di un proiettile sparato a bruciapelo, la maglietta della squadra del cuore di un bambino, ossa e resti umani disseminati un po’ dappertutto. Una kefiah a scacchi rossi bucherellata dalla raffica di mitra nella spietata esecuzione. È la scena dell’orrore di una delle 24 fosse comuni a cielo aperto scoperte attorno alla città martire di Sinjar, nel nord ovest dell’Irak vicino al confine con la Siria. Per un anno e mezzo la capitale della minoranza yazida è stata occupata dallo Stato islamico, cacciato dai combattenti curdi con il martellante appoggio aereo alleato. Fino ad oggi sono stati trovati i resti di 1624 civili colpevoli di non essere musulmani. I boia jihadisti hanno massacrato anche anziani e bambini bollandoli come «adoratori del diavolo».

Un crimine di guerra, tassello di una strategia del terrore, che ha costretto alla fuga dalle loro case 2 milioni e 250mila persone solo nel nord dell’Irak. Profughi dimenticati come i sunniti, che all’inizio avevano appoggiato lo Stato islamico e adesso scappano dal regno assolutista del Califfo. E i cristiani, che sognano un futuro in Europa, ma rischiano di annegare nel Mar Egeo per colpa di trafficanti senza scrupoli.

Lamya Bashar è una diciottenne yazida, sopravvissuta all’inferno come sposa forzata dei mujaheddin.

Nell’estate del 2014 è stata rapita dai miliziani del Califfo, che hanno conquistato Sinjar. Il 19 aprile è riuscita finalmente a fuggire con due amiche, pure loro spose forzate delle bandiere nere. Prima di raggiungere le linee curde sono saltate in aria su una mina. «Ricordo un lampo di luce davanti ai miei occhi. Prima di svenire ho chiamato Katerina sentendo solo un rantolo come risposta», racconta quasi sottovoce Lamya, l’unica sopravvissuta. Il suo volto è completamente sfigurato dall’esplosione. Dall’occhio destro è cieca e da quello sinistro ha perso la vista per il 60%, ma vuole tornare a vivere. «Gli uomini neri mi hanno portato a Raqqa (in Siria) quando avevo solo 16 anni. Un iracheno dello Stato islamico, che si chiama Abu Mansoor, mi ha comprata», ricorda Lamya. Il primo di quattro mariti, che l’hanno ridotta a schiava del sesso. «Imad, il terzo, preparava le auto minate e le cinture esplosive. Mi ha costretto ad aiutarlo. Ho provato a scappare, ma sono stata ripresa. Assieme a un suo compare saudita mi hanno legato al soffitto e bastonato fino a quando non perdevo sangue dal naso», spiega con i capelli raccolti e una maglietta rosa. Suo zio Idris pensava che fosse morta, fino a quando non ha ricevuto un messaggio registrato via telefonino, che ci fa ascoltare. Lamya, con la voce spezzata dalla paura, lo scongiura: «Non posso parlare. Devo farlo di nascosto. Non so nulla delle altre ragazze (yazide). Ho sentito che le hanno uccise. Ti prego liberami subito». La sposa forzata dei mujaheddin confessa: «Quando ero nella mani di Daesh (Stato islamico) volevo morire. Era meglio che vivere in quel modo». Alla fine è riuscita a scappare, anche se sfigurata da una mina. Adesso è in Germania per sottoporsi alla chirurgia plastica. Il Giornale.it