Ah, eccoci qui, cari sammarinesi, a sfogliare il calendario con la noia di chi guarda un film già visto: il prossimo 23 novembre si vota, per eleggere i nuovi – o “usati” – Capitani di Castello e le Giunte, e su nove Castelli ben sette si contendono il trono con una sola lista, un solo candidato, come se la democrazia fosse un’asta deserta dove l’unico offerente si aggiudica il malloppo senza sudare.

Due eccezioni – Città e Domagnano – dove qualcuno ha trovato la forza di organizzare una sfida a due, probabilmente sudando sangue e invocando santi dimenticati, perché ammettere che non sopporti la lista unica è come confessare di odiare il prosciutto a una cena in piazza.
Immaginate: ventitremilacinquecentoventisei aventi diritto, più i residenti stranieri over dieci anni che dal 2020 possono ficcare il naso nelle urne, e il quorum al 35% che pende come una spada di Damocle su questa farsa senza sfida.
Ma chi se ne frega, no? Meglio astenersi, crogiolarsi nel menefreghismo e far finta che il Castello sia un club privato dove il Capitano si nomina da solo, come un monarca in miniatura con la fascia bicolore e zero sudditi entusiasti. E qui casca l’asino, o meglio, il somaro qualunquista che ci portiamo appresso da anni, un’eredità tossica che puzza di “La Casta” italiana, quel libraccio che ha aperto le porte al circo “grullino” – pardon, grillino, con un refuso alla toscana che, però, calza a pennello – trasformando l’Italia in un laboratorio di incompetenza certificata, dove i diplomati sui social e in “parlo e spacco” hanno devastato economia e istituzioni con la grazia di un elefante in cristalleria.
Ricordate? “Tutti ladri, tutti uguali”, urlavano dal balcone, e bum: al governo finiscono pagliacci con il manuale del populista sotto il braccio, che promettono onestà e consegnano caos, debiti mai visti prima e un Parlamento da reality show.
San Marino, microcosmo del Titano, non è da meno: la disaffezione non è un virus cinese, è un cancro autoctono che vi rode dall’interno, partendo da quel torpore pigro dove nessuno vuole sporcarsi le mani nelle liste locali. “Io? Candidato? Ma figurati, ho il mutuo da pagare e, la sera, la partita di calcetto”, bofonchiano. Crolla l’impegno diretto in politica e così l’affluenza, come se votare fosse un optional da discount. Da non interesse a non disponibilità, il passo è breve come un caffè al bar: culmina in urne semivuote, un suicidio democratico lento e indolore, dove la politica muore non per mano dei “delinquenti” al potere, ma per l’apatia di chi si lamenta ma non schioda il sedere dal divano.
Eppure, signori, la politica non è nata per fare i conti con le cravatte storte dei segretari di partito o per litigare su chi ha il caffè più amaro in Congresso di Stato. Le origini nobili? Pensate ad Aristotele che la definiva l’arte del bene comune, non un’arena da gladiatori con like su Facebook. O a Pericle, che arringava Atene per farla grande, non per chiacchierare di immunità come scudi per coltellate verbali o, restando in attualità, martellate sulla testa degli avversari politici… Presunte, ovviamente…
Qui sul Titano, i Capitani di Castello dovrebbero essere i veri alfieri di quella politica “vera”, quella che annusa i problemi dal marciapiede – buche nelle strade, lamentele per il rumore dei cantieri, o il vicino che scarica l’immondizia nel tuo giardino – non dai palazzi lustri dove i partiti decidono “menu à la carte”. È l’essenza stessa: vicinanza ai bisogni, sudore sulle mani, zero filtri da burocrate.
Chi l’ha fatto con dedizione lo sa: è un impegno da koala strafatto, con notti in bianco per riunioni inutili e risultati che svaniscono contro il muro della politica partitica, ma è anche il motore civico che tiene in piedi la Repubblica, non un hobby da curriculum.
E la commissione sulle riforme istituzionali? Che ascolti i cittadini, non solo gli “esperti” con la laurea in chiacchiere e il CV gonfio di incarichi. Altrimenti, è solo un altro treno perso, come quelli tech che ci sfilano davanti mentre chiediamo a Siri che tempo fa.
Ma no, la mia non è una campagna di astensione, quella è roba da vigliacchi, un lusso per chi si illude di protestare lavandosi le mani come Pilato. Non votare è menefreghismo puro, un “fanculo” alla comunità che ti ha cresciuto, un rifiuto di assumerti responsabilità nel Castello dove vivi, lavori e imprechi per il parcheggio.
Spronatevi, svegliatevi dal letargo qualunquista: scendete in campo, candidatevi se i “delinquenti” vi fanno schifo, o almeno votate anche se la lista – ormai, e solo per questa volta spero – è unica.
E voi, quelli del “non vado a votare per ‘sti ladri, son tutti uguali”? Ma se son tutti uguali, fate come fece il Cavaliere, scendete in campo direttamente, no? Ah, no? Allora zitti e buoni, e la prossima volta che piangete per le buche o le tasse, portatevi la carta igienica: perché senza il vostro voto, la democrazia puzza di fogna, e ve la meritate tutta.
Enrico Lazzari