C’è una deriva pericolosa che si ripropone periodicamente: trasformare una scelta giudiziaria, tecnica, motivata e prevista dalla legge, in una battaglia di principio costruita a tavolino per alimentare il solito clima da indignazione permanente.
L’ultimo caso riguarda il processo per un incidente mortale del 2022, celebrato a porte chiuse. E puntuale arriva il commento indignato: “inspiegabilmente”, “precedente pericoloso”, “diritto di cronaca messo a rischio”, firmato dal giornalista Antonio Fabbri de L’Informazione.
Fermiamoci un attimo.
Quando si parla di giustizia, una regola di base c’è: non è il giornalista a decidere quando le porte devono stare aperte.
E soprattutto, non è l’indignazione a creare il diritto.

La legge prevede espressamente la possibilità di celebrare l’udienza a porte chiuse; la parte civile ha il diritto di chiederlo quando sono in gioco dignità, riservatezza o tutela personale; la decisione del giudice è motivata, non arbitraria; ci sono profili di sensibilità e dolore familiare non compatibili con il processo-spettacolo; il diritto di cronaca resta intatto, perché atti e sentenza sono comunque pubblici.
La scelta del Commissario della Legge Vico Valentini è dunque una scelta giuridica legittima: non è uno strappo alle regole, e la giustizia non deve conformarsi alle esigenze mediatiche.
Non è affatto un “precedente pericoloso” e non c’è nulla da nascondere: è semplicemente l’applicazione della legge.
Il nostro ordinamento prevede da sempre che, in determinate circostanze, il giudice possa disporre l’udienza a porte chiuse.
Non è un capriccio né un favore a qualcuno: è una misura di tutela — delle parti civili, della dignità dei familiari, della riservatezza su aspetti sensibili e delle dinamiche personali o tecniche delicate.
L’unica eccezione è quando sono le stesse parti a chiedere espressamente la pubblicità del processo, assumendosi in modo consapevole le conseguenze mediatiche. La normativa sulla privacy del 2023 lo chiarisce senza ambiguità: la pubblicità è ammessa solo con il consenso esplicito degli interessati, del minore sopra i 16 anni o del genitore per chi ha meno di 16 anni.
E infatti, nel caso specifico, la parte civile lo ha chiesto, il giudice ha valutato e ha deciso con un provvedimento motivato.
Tutto lineare, tutto dentro il perimetro della legge.
“Spiegabilissimo”, altro che inspiegabile. E il giornalismo non può diventare un interprete delle norme. Non è il suo compito.
L’indignazione automatica è un ottimo strumento retorico, ma un pessimo approccio al diritto.
Quando si afferma che “non c’è motivo” per celebrare il processo a porte chiuse, si fa una cosa molto semplice: si sostituisce il proprio giudizio a quello del giudice.
Ed è qui che nasce il cortocircuito: se il giudice applica una norma, ma il giornalista non la gradisce, allora è “inspiegabile”.
Non funziona così.
Il passaggio più critico, quello davvero pericoloso, è accettare l’idea che il processo debba essere aperto perché lo reclama un singolo giornalista.
Significa aprire un fronte istituzionale devastante: si mette in discussione l’autonomia della magistratura, si trasforma un provvedimento tecnico in un atto politico, si crea l’aspettativa distorta che “se urlo abbastanza, la giustizia cambia le regole”.
Questo sì che sarebbe un precedente.
Un precedente pericoloso.
Un precedente da non accettare nemmeno come ipotesi.
Il processo in questione riguarda un fatto tragico, la prudenza istituzionale imporrebbe discrezione, non lo show.
I familiari hanno diritto alla dignità, non all’agonia mediatica.
Le parti hanno diritto alla riservatezza quando lo richiedono.
E il giudice ha il dovere di garantirla.
Il giornalismo racconta i fatti, non pretende di riscrivere le regole della giustizia.
Il diritto di cronaca non è assoluto.
Non lo è in nessun Paese civile.
Neppure negli Stati Uniti, patria del First Amendment.
In presenza di tutela delle parti civili, di elementi sensibili, di interesse dei familiari, di richieste fondate delle parti stesse, la legge dà uno strumento: porte chiuse.
Punto.
Pretendere che ogni processo sia aperto “perché lo vogliamo seguire” non è diritto di cronaca: è intrusione.
Il messaggio va chiarito una volta per tutte: non c’è nessun mistero, nessuna opacità, nessun complotto.
C’è un provvedimento legittimo, previsto dalla legge, adottato dal giudice competente sulla base delle richieste delle parti.
L’unica cosa “pericolosa” è voler trasformare una decisione giurisdizionale perfettamente legittima in un caso politico costruito su indignazione a comando.
Perché se cominciamo a far dipendere l’apertura o la chiusura dei processi dall’opinione dei giornalisti, non abbiamo più uno Stato: abbiamo un’arena.
E a quel punto sì, sarebbe davvero un precedente devastante.
Marco Severini – direttore GiornaleSM












