Oggi, venerdì 12 dicembre 2025, l’Italia ricorda una delle pagine più buie della sua storia repubblicana. Sono trascorsi esattamente 56 anni da quel pomeriggio del 1969 quando, alle 16:37, un ordigno contenente sette chilogrammi di tritolo esplose nella sede della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana, a Milano. Il bilancio fu drammatico: 17 morti e 88 feriti. Quell’evento segnò l’inizio della cosiddetta strategia della tensione, un periodo caratterizzato da attentati volti a destabilizzare l’ordine democratico.
Una verità processuale complessa
La vicenda giudiziaria legata alla strage è stata lunga e tortuosa, attraversando dieci processi e decenni di indagini, tra depistaggi, fughe e sentenze contrastanti. Nonostante l’assoluzione definitiva pronunciata dalla Cassazione nel 2005 per gli imputati Delfo Zorzi, Giancarlo Rognoni e Carlo Maria Maggi, il quadro storico e le responsabilità politiche sono emersi con chiarezza grazie al lavoro svolto negli anni, in particolare dall’istruttoria condotta tra il 1989 e il 1997 dal giudice milanese Guido Salvini.
Le indagini hanno permesso di attribuire la paternità dell’attentato alla formazione di estrema destra Ordine Nuovo. Sebbene non si sia giunti a condanne definitive per gli esecutori materiali in quell’ultimo filone processuale, le sentenze hanno sancito che la strage fu organizzata dall’area nazifascista, con la collusione di apparati deviati dello Stato. L’obiettivo era creare un clima di terrore tale da indurre l’allora Presidente del Consiglio, Mariano Rumor, a decretare lo stato di emergenza, favorendo così una svolta autoritaria.
Il nodo di Freda e Ventura
Uno degli aspetti più paradossali della vicenda riguarda le figure di Franco Freda e Giovanni Ventura. Le sentenze definitive hanno riconosciuto la loro responsabilità nell’organizzazione dell’attentato, ma i due non hanno potuto essere condannati poiché erano già stati assolti in via definitiva in precedenti processi, rendendoli non più perseguibili per lo stesso reato. Elementi decisivi, come la testimonianza dell’elettricista Tullio Fabris sui timer utilizzati per le bombe, emersero solo nel 1995, quando ormai per i due imputati storici era scattata l’intangibilità del giudicato.
Un ruolo chiave nella ricostruzione dei fatti è stato svolto da Carlo Digilio, l’esperto di esplosivi del gruppo veneto di Ordine Nuovo. Reo confesso e collegato ai servizi segreti americani, Digilio ha fornito dettagli cruciali sulla preparazione degli ordigni, ammettendo le proprie responsabilità e contribuendo a delineare la rete eversiva.
I depistaggi e la memoria
La storia di Piazza Fontana è indissolubilmente legata anche ai tentativi di sviamento delle indagini, che inizialmente puntarono sulla pista anarchica. Furono coinvolti ingiustamente Pietro Valpreda, incarcerato e additato come mostro, e Giuseppe Pinelli, morto precipitando da una finestra della Questura di Milano. Una contro-inchiesta condotta all’epoca da giovani militanti, confluita nel libro “La strage di Stato”, fu fondamentale per smontare quella narrazione e anticipare molte delle verità giudiziarie emerse successivamente.
A distanza di oltre mezzo secolo, la strage non è più considerata un mistero senza mandanti. È stata riconosciuta come opera della destra eversiva, inserita in un disegno più ampio che coinvolgeva settori istituzionali pronti a sfruttare il caos per fini politici. Oggi la memoria di quei fatti serve a monito per le nuove generazioni, affinché la conoscenza storica impedisca il ripetersi di simili trame contro la democrazia.












