San Marino. ECCO IL DECRETO DI ACCOGLIENZA DEI PALESTINESI. Dopo il riconoscimento della Palestina arrivano i palestinesi e faranno parte del nostro tessuto lavorativo e assistenziale. Prima solo 30 e poi con i ricongiungimenti?

Complimenti CONGRESSO DI STATO!

Il decreto è stato approvato ieri dal Congresso di Stato per far arrivare a San Marino, “per ora”, una trentina di palestinesi viene raccontato come una misura temporanea, legata all’emergenza e limitata nei numeri. MA NON E’ COSI’.

Il classico messaggio tranquillizzante: “pochi, per poco, e poi si vedrà”. Solo che, guardando a come è costruita la misura, quel “provvisorio” rischia di restare solo una parola buona per i titoli, mentre la realtà va in un’altra direzione. Perché quando apri una corsia con permessi rinnovabili, servizi pubblici, possibilità di lavorare e sostegno economico, non stai gestendo un passaggio: stai mettendo le basi per una permanenza. E soprattutto, stai creando le condizioni perché i numeri aumentino in fretta. 

Partiamo dal punto chiave: il permesso di soggiorno non è un lasciapassare di poche settimane. È impostato su una durata annuale e, soprattutto, si può rinnovare con una semplice richiesta. E questo cambia tutto. Una cosa davvero temporanea ha una scadenza netta, un “fine corsa” chiaro. Qui invece c’è un meccanismo che può andare avanti anno dopo anno. È così che una misura nata “per emergenza” diventa una normalità, passo dopo passo, senza che nessuno lo dica apertamente.

Poi c’è l’inserimento nel sistema sammarinese. Non parliamo di ospitalità di fortuna, stile “vi mettiamo in sicurezza e poi rientrate”. Qui si ragiona come se queste persone dovessero vivere davvero dentro al Paese, perché viene previsto l’accesso alla sanità, ai servizi sociosanitari e all’istruzione, come avviene per i residenti. Quando una famiglia entra nel circuito sanitario e i figli entrano a scuola, non è più una parentesi: è una vita che si struttura. E una vita strutturata non la chiudi con un comunicato.

C’è anche il tema del lavoro, che è quello che radica tutto. Il decreto consente ai titolari del permesso di lavorare, anche con passaggi più semplici rispetto alle regole normali. E chi lavora non resta “ospite”: diventa parte del sistema economico. Affitto, spese, contratti, relazioni. È un meccanismo che spinge verso l’integrazione reale, non verso il rientro.

Nel frattempo entra in gioco il sostegno economico, con contributi pubblici erogati tramite strumenti come la SMAC Card. Non parliamo di un aiuto casuale o di beneficenza privata: è una misura gestita con procedure, con pagamenti, e con un criterio legato anche al nucleo familiare, distinguendo tra adulti e minori. E qui c’è un dettaglio che pesa tantissimo: se il contributo segue il nucleo, allora ogni nucleo che si allarga porta automaticamente più spesa e più stabilizzazione. È una logica che “porta avanti” la misura, non che la spegne.

Anche sull’alloggio il decreto non si limita a consentire, ma incentiva. Agevolazioni fiscali e sospensioni di alcuni costi rendono conveniente ospitare. Questo è un segnale chiaro: si sta cercando di rendere l’operazione sostenibile nel tempo, non di tamponare per poche settimane.

Fin qui, già basterebbe per capire che il “provvisorio” è più marketing che sostanza.

Ma c’è il vero punto che fa saltare il banco, ed è quello che spesso viene tenuto fuori dalla discussione: i ricongiungimenti. Perché una volta che una persona è entrata con un permesso rinnovabile, può lavorare, ha sanità e servizi, ha un alloggio e magari un sostegno economico, la domanda successiva è inevitabile: “E la mia famiglia?”. È una dinamica normale, umana, prevedibile. E quando si apre la porta ai nuclei familiari, i numeri non crescono lentamente: schizzano soprattutto per chi ha più mogli e quindi famiglie allargate. Da 30 è facile arrivare a 300, 500, 1000 e 3000 negli anni ed anche di più. 

MA DAVVERO VOGLIAMO QUESTO?

È qui che il “trenta” iniziale rischia di essere solo un numero di partenza. Non è allarmismo: è matematica. E più passa il tempo, più diventa difficile dire di no, perché nel frattempo ci sono bambini a scuola, persone al lavoro, cure mediche avviate, contratti firmati. A quel punto non stai più discutendo di “accoglienza temporanea”, ma di vite già radicate.

Il “limite” di circa trenta persone, quindi, va preso per quello che è: un limite politico, utile oggi per far digerire la scelta, ma facilmente superabile domani. E quando sarà superato, verrà detto che “era inevitabile” o che “ce lo chiede la realtà”. Solo che la realtà è stata impostata così dall’inizio, perché il decreto non costruisce un ponte per attraversare l’emergenza: costruisce una strada per restare.

Si può essere favorevoli o contrari, questo è un altro discorso. Ma una cosa va detta chiaramente: chiamarlo “provvisorio” serve a tranquillizzare, non a descrivere. Perché, tra rinnovi, servizi, lavoro, contributi e soprattutto ricongiungimenti, questa misura ha già dentro di sé il meccanismo che trasforma trenta persone in molte di più. E lo fa in fretta

RIPETO: VOGLIAMO DAVVERO QUESTO?

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