Da Andorra. DAVID CASTILLO. Il pasticcio dell’accordo di associazione. La necessità di un referendum, subito

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DAVID CASTILLO

Il pasticcio dell’accordo di associazione. La necessità di un referendum, subito

Il Governo vende l’accordo di associazione con l’UE come la porta d’ingresso a un futuro radioso, ma ciò che vediamo ogni giorno è un’operazione sempre più costosa, disordinata e avvolta da un’opacità che farebbe invidia a qualsiasi ministero di quelli che ripetono sempre: “Ci stiamo lavorando.” Ci promettono accesso al mercato interno europeo, modernità e prosperità, ma il conto cresce e le garanzie diminuiscono. È il classico menù degustazione istituzionale: tante belle parole, tanto PowerPoint, ma quando arriva il conto inizi a capire il perché di tanta luce soffusa e tanta musica di sottofondo.

DA, nel suo programma elettorale, ripeteva come un mantra che l’accordo era una “opportunità storica”, che andava firmato senza esitazioni e che qualsiasi dubbio era semplice “disinformazione”. Un espediente quasi comico: dubitare è disinformare, fare domande è disinformare, voler vedere i numeri è disinformazione. Sembra che esista un solo criterio accettabile: quello del partito. Ma il programma parlava anche di “ampliare l’orizzonte europeo senza compromettere le specificità del Paese”. Ed è qui che l’ironia diventa satira: come si possono mantenere le specificità quando il quadro europeo si basa proprio sull’armonizzazione, sull’unificazione e sulla standardizzazione? Ci assicurano che nulla cambierà… mentre spendiamo milioni per adeguarci. Misteri della fede istituzionale.

La CASS ha già annunciato una spesa di 1,6 milioni di euro solo per prepararsi “nel caso servisse”. Una previsione di bilancio che, in qualsiasi altro contesto, sarebbe motivo di uno scandalo enorme. Destinare denaro pubblico prima ancora di sapere se i cittadini vogliono davvero l’accordo è come comprare un appartamento senza averne visto nemmeno la facciata: si spiega solo se qualcuno ha più fretta che buon senso. E non è l’unico conto. Bisognerà adeguare normative, rafforzare i team tecnici, rivedere procedure, affrontare possibili impatti sul mercato del lavoro e su quello immobiliare… tutto questo prima ancora di sapere se il Paese dirà sì o dirà no. È un investimento in un futuro che nessuno ha ancora votato.

DA e il Governo continuano a vendere tranquillità, assicurando che tutto sarà vantaggioso e che l’integrazione porterà stabilità e opportunità. Ma questa serenità è, mi dispiace dirlo, puro artificio: la realtà è che la cittadinanza è sempre più divisa, più diffidente e più stanca di un processo che sembra costruito per evitare le domande fino all’ultimo momento. Il dibattito pubblico viene lavato e centrifugato fino a ridursi a tre slogan di base: “L’Europa è una cosa buona”, “I critici esagerano” e “Non preoccuparti delle clausole, te le spiegheremo dopo”. E intanto la struttura del Paese viene messa a rischio da decisioni che non vengono discusse con la profondità che meritano.

Il Governo parla di “pedagogia”, ma spesso la pedagogia non è altro che propaganda in PowerPoint. Quando si segnala un rischio, il Governo risponde con la foto di qualche montagna e una frase ispiratrice sulle “opportunità future”. Quando si chiedono dati, arrivano titoli. Quando si chiede rigore, arrivano sorrisi. E quando si chiede trasparenza, arrivano silenzi o risposte talmente astratte che potrebbero servire a giustificare qualsiasi altra cosa.

Il problema non è l’Europa. Il problema è il pasticcio interno con cui si sta gestendo un accordo che può cambiare radicalmente il modo di vivere, lavorare e produrre nel Paese. Un accordo che non è neutro, che non è gratuito, che non è inevitabile. E soprattutto un accordo che non può essere imposto per inerzia o per interesse di partito.

Per questo serve un referendum immediato, chiaro e vincolante. Non un referendum “quando conviene”, non un referendum “quando saremo pronti”, non un referendum “dopo le elezioni”. No: adesso. Se DA è così convinta che l’accordo sia un gioiello, lo difenda davanti alle urne. Se il Governo crede davvero nella propria pedagogia, la metta alla prova. E se davvero si fida della maturità del Paese, lasci che sia il Paese a decidere.

È facile ripetere che l’accordo è storico. Lo è. Ma sarebbe ancora più storico se i cittadini di Andorra potessero scegliere liberamente se questo è il futuro che vogliono. Non esiste una democrazia matura che abbia paura di chiedere direttamente al popolo. Al contrario, ne esistono che hanno paura delle risposte.

Referendum, subito. Senza scuse, senza rinvii e senza maquillage. Il futuro del Paese non è patrimonio di nessun partito. È patrimonio di tutti.

Governo vende l’accordo di associazione con l’UE come la porta d’ingresso a un futuro radioso, ma ciò che vediamo ogni giorno è un’operazione sempre più costosa, disordinata e avvolta da un’opacità che farebbe invidia a qualsiasi ministero di quelli che ripetono sempre: “Ci stiamo lavorando.” Ci promettono accesso al mercato interno europeo, modernità e prosperità, ma il conto cresce e le garanzie diminuiscono. È il classico menù degustazione istituzionale: tante belle parole, tanto PowerPoint, ma quando arriva il conto inizi a capire il perché di tanta luce soffusa e tanta musica di sottofondo.

DA, nel suo programma elettorale, ripeteva come un mantra che l’accordo era una “opportunità storica”, che andava firmato senza esitazioni e che qualsiasi dubbio era semplice “disinformazione”. Un espediente quasi comico: dubitare è disinformare, fare domande è disinformare, voler vedere i numeri è disinformazione. Sembra che esista un solo criterio accettabile: quello del partito. Ma il programma parlava anche di “ampliare l’orizzonte europeo senza compromettere le specificità del Paese”. Ed è qui che l’ironia diventa satira: come si possono mantenere le specificità quando il quadro europeo si basa proprio sull’armonizzazione, sull’unificazione e sulla standardizzazione? Ci assicurano che nulla cambierà… mentre spendiamo milioni per adeguarci. Misteri della fede istituzionale.

La CASS ha già annunciato una spesa di 1,6 milioni di euro solo per prepararsi “nel caso servisse”. Una previsione di bilancio che, in qualsiasi altro contesto, sarebbe motivo di uno scandalo enorme. Destinare denaro pubblico prima ancora di sapere se i cittadini vogliono davvero l’accordo è come comprare un appartamento senza averne visto nemmeno la facciata: si spiega solo se qualcuno ha più fretta che buon senso. E non è l’unico conto. Bisognerà adeguare normative, rafforzare i team tecnici, rivedere procedure, affrontare possibili impatti sul mercato del lavoro e su quello immobiliare… tutto questo prima ancora di sapere se il Paese dirà sì o dirà no. È un investimento in un futuro che nessuno ha ancora votato.

DA e il Governo continuano a vendere tranquillità, assicurando che tutto sarà vantaggioso e che l’integrazione porterà stabilità e opportunità. Ma questa serenità è, mi dispiace dirlo, puro artificio: la realtà è che la cittadinanza è sempre più divisa, più diffidente e più stanca di un processo che sembra costruito per evitare le domande fino all’ultimo momento. Il dibattito pubblico viene lavato e centrifugato fino a ridursi a tre slogan di base: “L’Europa è una cosa buona”, “I critici esagerano” e “Non preoccuparti delle clausole, te le spiegheremo dopo”. E intanto la struttura del Paese viene messa a rischio da decisioni che non vengono discusse con la profondità che meritano.

Il Governo parla di “pedagogia”, ma spesso la pedagogia non è altro che propaganda in PowerPoint. Quando si segnala un rischio, il Governo risponde con la foto di qualche montagna e una frase ispiratrice sulle “opportunità future”. Quando si chiedono dati, arrivano titoli. Quando si chiede rigore, arrivano sorrisi. E quando si chiede trasparenza, arrivano silenzi o risposte talmente astratte che potrebbero servire a giustificare qualsiasi altra cosa.

Il problema non è l’Europa. Il problema è il pasticcio interno con cui si sta gestendo un accordo che può cambiare radicalmente il modo di vivere, lavorare e produrre nel Paese. Un accordo che non è neutro, che non è gratuito, che non è inevitabile. E soprattutto un accordo che non può essere imposto per inerzia o per interesse di partito.

Per questo serve un referendum immediato, chiaro e vincolante. Non un referendum “quando conviene”, non un referendum “quando saremo pronti”, non un referendum “dopo le elezioni”. No: adesso. Se DA è così convinta che l’accordo sia un gioiello, lo difenda davanti alle urne. Se il Governo crede davvero nella propria pedagogia, la metta alla prova. E se davvero si fida della maturità del Paese, lasci che sia il Paese a decidere.

È facile ripetere che l’accordo è storico. Lo è. Ma sarebbe ancora più storico se i cittadini di Andorra potessero scegliere liberamente se questo è il futuro che vogliono. Non esiste una democrazia matura che abbia paura di chiedere direttamente al popolo. Al contrario, ne esistono che hanno paura delle risposte.

Referendum, subito. Senza scuse, senza rinvii e senza maquillage. Il futuro del Paese non è patrimonio di nessun partito. È patrimonio di tutti.