AMARCORD SAN MARINO. Ricordando il 26 Giugno 1944. Era ricresciuto il grano.

Ricordando il 26 Giugno 1944 (scritto nel 2007)
Era ricresciuto il grano.
Ore 11:03 Improvvisamente si scatenò l’inferno, i lampadari si staccavano dal soffitto e cadevano sui banchi, alcuni bambini rimasero feriti, i vetri si rompevano e i pavimenti e le pareti vibravano. Era il 26 giugno 1944 stavo sostenendo l’esame di quinta elementare. Eravamo in un’aula nel Palazzo Pergami Belluzzi, Il maestro ci ordinò di non muoverci, ma nel giro di pochi minuti eravamo scappati via tutti. Dalla piazzetta si vedeva Via Carducci piena di detriti e di polvere, scappammo allora verso la Porta del Paese, mi trascinai dietro un bambino più piccolo. Dallo Stradone sino alla Chiesa del Crocefisso. Davanti al forno, a ridosso delle mura, si era compiuta una strage; camminavamo tra i morti. Invece di seguire i percorsi consueti ci trovammo a rotolare per una scarpata e a scappare, seguendo l’istinto.
Giunti a Santa Mustiola, la situazione era confusa, alcuni cercavano di trovare riparo in punti all’aperto, altri non volevano abbandonare le case. Ore 12:38 Arrivò una pioggia di bombe, Ca’ Giangi, Ca’ Berardo, Tessano furono devastate dalle esplosioni. Ci arrivavano addosso detriti e terra. Ero salvo, ritrovai i miei genitori, erano sporchi e con qualche ferita ma vivi. Da quel momento iniziai a vagare perdendo la cognizione del tempo, assieme ad altri bambini. Non ubbidivamo a chi voleva allontanarci dall’orrore, eravamo incuriositi e disperati e le notizie di vicini morti ci parevano irreali. In quel disordine, gli adulti non avevano il tempo e la forza di nascondere l’orrore ai nostri occhi. Ci recammo al Cimitero di Montalbo dove erano stati raccolti i corpi delle vittime, tutto quello che di orribile si poteva vedere lo guardammo mille volte. Non tornammo alle case sino a quando il buio non oscurò quella giornata di terrore.
Mio babbo ricordava in questo modo il tragico giorno del bombardamento del 26 giugno 1944. E’ un testo che ho scritto alcuni anni fa. Quest’anno, in occasione del 63°anniversario, mi è tornato alla mente un episodio che ho deciso di scrivere. In quel periodo leggendo pubblicazioni e documenti sul bombardamento del giugno 1944 mi era rimasto impresso il nome di una vittima, Maria P., deceduta a Ca’ Giangi. Il cognome da coniugata era identico al mio. Decisi di chiedere informazioni ai miei genitori:
“Sì, era la moglie dello zio Cesare, fratello del nonno” confermò mio padre. C’era una parentela con la donna rimasta uccisa “Abitava anche lei a Ca’ Giangi nello stesso gruppo di case, è stato uno dei luoghi più colpiti, pochi danni alle abitazioni ma tutte le persone si erano riversate nei campi e furono falciate dalle schegge”.
Qualche giorno dopo incontrai Alfredo in Città. Era seduto all’aperto con le mani appoggiate al tavolo, fumava e ridacchiava ascoltando i discorsi degli altri e li prendeva un po’ in giro, loro, vecchi e malandati a commentare il passaggio di alcune donne. Anche lui aveva abitato a Ca’ Giangi, nello stesso gruppo di case in cui ero nato io, avevamo continuato a salutarci e a scambiarci qualche parola quando ci incontravamo in giro per le vie di Città. Eravamo lontani parenti, portavamo lo stesso cognome, era il fratello di mio nonno o forse il cugino.
Mi diceva, a volte, con le sue labbra sorridenti ”Ottant’anni sono troppi, me ne basterebbero la metà”. Lo salutai ed entrai al bar.
Stavo bevendo il caffè e lo vidi entrare e avvicinarsi.
“So che hai parlato del bombardamento con tuo babbo. E’ stata una strage quella volta” disse.
“Sì, una carneficina e proprio lì dove abitavamo noi. Io, per fortuna, sono nato quindici anni dopo” gli dissi.
“Io, invece c’ero. E’ stata la fine del mondo”.
“Il fatto strano è che non venne colpita neanche una casa e ci furono tanti morti lo stesso” constatai.
“Eravamo contadini, ignoranti, non sapevamo niente, sarebbe bastato buttarsi a terra, sono morti tutti per le schegge” disse sconsolato.
“A proposito, ho letto in un libro la lista delle vittime, c’era anche una nostra parente, la moglie di un fratello di mio nonno, credo”.
Vidi il suo sguardo guardare oltre, c’era la ragazza dietro al bancone e lui sembrava non vederla, i suoi occhi chiari si erano fatti piccoli e lucenti.
“Era tua cognata?” chiesi ancora.
Si avvicinò, appoggiò la mano sul mio braccio e mi guardò. Era un viso bello, da vecchio intelligente e saggio. I suoi occhi si erano spalancati e mi stava mostrando paesaggi della nostra campagna. Non sentivo il brusio provenire dai tavoli. Alle immagini delle devastazioni della guerra avevo sovrapposto quelle della mia infanzia. Vedevo Alfredo salire su una Vespa e sua moglie che mi offriva biscotti, trattori che trascinavano carichi d’uva e frutta. La guerra era finita, vedevo i campi, attorno alla nostra casa, su cui era ricresciuto il grano. Vedevo gli alberi di fico, i mandorli, le vigne.
“Era mia madre “ disse Alfredo.