Amendola, Il mio patriarca, boss spietato e ‘fragile’

 “Nemo è bianco e nero. È l’imprenditore e il magnate della sua città, Levante. Allo stesso tempo ne è il volto criminale e più pericoloso. Lo è sempre stato, fino a oggi”. Così Claudio Amendola racconta all’ANSA il suo ritorno alla fiction, protagonista e regista de “Il patriarca”, nuova serie ispirata al successo spagnolo Vivir sin permiso, dal 14 aprile su Canale 5. In tutto, sei prime serate, prodotte da Camfilm e presentate da Taodue – Mediaset Group, per una saga familiare ricca di colpi di scena, tradimenti, sangue e amori, che ruota proprio intorno a Nemo Bandera, imprenditore che ha portato la Deep Sea nell’Olimpo delle più importanti aziende della Puglia, grazie all’abilità negli affari, ma soprattutto a traffici illeciti nel porto di Levante. Nemo ha una bella moglie (Antonia Liskova), due figli legittimi più interessati all’arte e ai cavalli (Giulia Schiavo e Carmine Buschini). E una terza da un altro amore, che però con quel padre non vuole avere nulla a che fare (Neva Leoni). “Noi, però – anticipa Amendola – conosciamo Nemo nel giorno in cui tutta la sua vita cambia: quando scopre di essere malato di Alzheimer. È il punto di partenza per quest’uomo, che fino ad ora è stato il re indiscusso. D’ora in poi non sarà più così imponente, probabilmente tra un po’ non riuscirà neanche ad allacciarsi le scarpe. È questo che mi ha colpito del personaggio, il rapporto improvviso con la fragilità, la perdita lenta e progressiva di tutto quello che ti sei costruito. Del tuo essere ‘tu’. Mi sono chiesto: io come reagirei? È strano ma quello della morte è un pensiero che non fai per tutta la vita e poi a un certo punto cominci a pensarci”. Nemo punta a “ripulire” l’azienda e a trovare in fretta il suo erede al comando. L’uomo ideale sarebbe Mario (Raniero Monaco di Lapio), suo figlioccio diventato avvocato e fidanzato con la senza scrupoli Elisa (Giulia Bevilacqua), ma non è sangue del suo sangue. Si apre così una scalata senza esclusione di colpi, mentre Nemo finisce anche nelle indagini dell’ispettore Monterosso (Primo Reggiani). “Fa parte di quel filone di personaggi come Il padrino – prosegue Amendola – Nemo si macera in una lotta interna: cerca in tutti modi di uscire da quel mondo, ma quel mondo lo ritira sempre dentro”. E Amendola, con una troupe da guidare per sette mesi, tra Roma e la Puglia, si è mai sentito un “patriarca”? “Figuriamoci, vengo da una famiglia che più sgangherata non c’è – ride – Però ognuno di loro sa che in qualunque momento può contare su di me. Sul set, il regista è la punta della piramide. Ci sono regole alle quali non sgarro mai, come il rispetto per gli attori e avere sempre le idee chiare quando 80 persone aspettano le tue indicazioni”. Ma “Il patriarca” racconta anche la convivenza tra la “nuova” mafia, quella con l’orologio d’oro al polso che si insinua nei grandi appalti, e la “vecchia”, fatta di lupare e coltelli. “Non illudiamoci solo perché non scoppiano più le bombe. La lotta nel nostro Paese non è assolutamente finita. Semplicemente la mafia evolve – commenta Amendola – Il nostro è un Paese sempre in pericolo. Mentre parliamo entra in vigore il nuovo Codice degli appalti ‘liberi’. Ho molta paura di questa voglia di vita da nord Europa. Non siamo finlandesi, noi abbiamo come comune denominatore: la corruzione. Non è parlar male dell’Italia, intendiamoci, è solo conoscere il Paese e dire la verità”. A febbraio Amendola ha anche compiuto 60 anni. Un regalo che vorrebbe? “Mi piacerebbe un film western – sorride – Vado anche bene a cavallo”. (ANSA).


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