PER FORTUNA che ci sono John e Sergei. Finalmente si firma un’intesa che apre la strada per i colloqui di pace in Siria, ma Obama e Putin continuano a litigare. Il primo vuole la testa di Assad, lo Zar lo difende costi quel che costi. Una questione reale, o di principio, intanto si continua a morire. Ma dietro i due campioni litigiosi e caparbi, lavorano i loro aiutanti, John Kerry e Sergei Levrov. Si deve a loro se non si è già arrivati al peggio. In Siria, o in Ucraina, ovunque nel mondo dove i due colossi si affrontano. I due ministri degli esteri siedono nell’angolo come i secondi di due campioni di boxe: i pugili si affrontano, menano colpi non sempre utili, e dunque sempre dannosi, e loro cercano di porre rimedio ai guai combinati sul ring, consigliano, rimproverano. Magari, alle spalle dei loro pesi massimi si fanno l’occhietto: cerchiamo di trovare un accordo noi due. È avvenuto tre anni fa, quando Obama ha minacciato di spedire missili sulla testa di Assad, se fosse stato provato che aveva usato i gas sui ribelli.
PUTIN è un bravo giocatore di scacchi, mentre l’avversario se la cava appena a dama, ma sono stati Lavrov e Kerry a trovare la mossa giusta per giungere a una patta apparente: Obama ha potuto dimenticare la minaccia senza perdere la faccia. E si è evitato di giungere al confronto fatale. O in Ucraina, quando avventatamente la Nato ha cominciato a inviare truppe sul confine, e Putin voleva mandare le sue divisioni verso Kiev.
INFATICABILI, John e Sergei hanno trovato il compromesso opportuno: nessuno perde, ognuno può dire d’aver vinto, e si va avanti. Kerry la guerra l’ha fatta sul serio. In Vietnam era al comando di una guardiacoste, e nella sua coscia destra porta ancora schegge di una granata scaraventata dai vietcong sulla plancia della sua nave, nel 1969. Non è un eroe alla John Wayne, e vuole evitare nuovi conflitti. Nato nel ’43, è come dire un figlio d’arte. Suo padre era diplomatico, la madre della high society di Boston. I bostoniani che considerano pericolosi burini i texani come George Bush. E conosce l’Europa. A undici anni seguì il padre a Berlino, dove visse un paio d’anni, prima di essere spedito in collegio in Svizzera. Parla tedesco e francese. Un diplomatico raro a Washington. È stato candidato alla presidenza, ma è troppo europeo per gli elettori.
SERGEI Victorovich Lavrov è più giovane. Nato nel 1950, solo di recente ha rivelato di essere d’origine armena, sua madre era di Tiflies impiegata al ministero degli esteri. Anche lui, un figlio d’arte. È l’elegante cane da guardia di Putin, ha scritto la ‘Bild’. Un complimento a doppio taglio, per un comunista, ex o post che sia. Ama gli abiti fatti su misura, il bicchiere di whisky in una mano, l’eterna sigaretta nell’altra, sembra che voglia imitare James Bond, come malignano i colleghi. Ha studiato all’Istituto per rapporti internazionali, parla inglese, francese e il singalese, imparato mentre era all’ambasciata in Sri Lanka.
Un russo alla vecchia maniera: suona il piano, canta da baritono, scrive poesie, ha composto perfino un inno per la sua scuola, giocava a calcio in difesa, e fa il tifo per lo Spartak Mosca. Infine, da non dimenticare, è un ortodosso, e di quando in quando va in chiesa. Il suo motto? Meglio litigare a parole che bombardare. Il suo capo ha minacciato di usare l’atomica? Forse è stato lui a consigliare la battuta. Perché le atomiche nessuno le getta sul serio, altri ordigni invece fanno meno paura, ma prima o poi si usano. Mentre un premio Nobel per la pace e uno Zar rischiano di far scoppiare la guerra, un americano che sembra un europeo, e un russo che sembra un inglese, tramano alle loro spalle per la pace.
La Stampa