Bologna. «Lui mi picchiava e io mi chiedevo: Cosa ho fatto, dove ho sbagliato?»

«Ogni volta che lui mi metteva le mani addosso, io mi chiedevo: ‘Perché lo fa, dove ho sbagliato?’. Mi sentivo colpevole a ogni schiaffo, ogni pugno. Un gorgo di dolore, fisico e psicologico, che mi trascinava giù. Sarei annegata, se non ci fossero stati loro, i miei angeli, a tirarmi fuori da quell’incubo, a darmi il coraggio di denunciare».
Flavia C. ha 50 anni e un passato che vuole dimenticare. Il 27 marzo rincontrerà in tribunale l’uomo, un pregiudicato quarantasettenne, che per anni l’ha malmenata, fino ad abusare sessualmente di lei. L’uomo che lei amava, con cui aveva scelto di stare. Che ogni volta aveva riaccolto in casa, credendo che potesse cambiare.
E invece no. Perché chi tocca una donna non è degno di essere chiamato uomo. E non cambia. Nel giorno in cui le donne si festeggiano, Flavia vuole raccontare la sua storia «perché troppe ancora fanno il mio errore. Vivono l’inferno, ma stanno zitte. Subiscono, per vergogna o paura. E tante muoiono, anche. Se io non avessi incontrato i carabinieri di San Benedetto Val di Sambro, adesso probabilmente non sarei qui a parlare. Sarei un numero, nelle statistiche della violenza».

Flavia, come inizia la sua storia?
«Inizia tre anni fa, con un grande amore. Una convivenza felice, nata dalla passione comune per gli animali. Un idillio durato però solo otto mesi. Perché quando, dopo una lite col fratello, ha perso il lavoro, lui ha iniziato a bere. E l’alcol lo rendeva violento e cattivo. Mi picchiava, per qualsiasi motivo. Voleva soldi di continuo, mi insultava. Io però non volevo darglieli, perché con quei soldi ci andava a bere. Un pomeriggio, al culmine della violenza, con l’attizzatoio del caminetto mi ha rotto la tibia».

Ma lei non lo ha denunciato.
«No, avevo paura. E poi lo amavo. E quando mi prometteva ogni volta che avrebbe smesso di bere, io gli credevo. Una volta, però, me le ha date talmente forte che sono finita in ospedale. I medici non hanno creduto alle mie scuse e hanno sporto denuncia d’ufficio perché la prognosi superava abbondantemente i venti giorni».

Anche dopo questo episodio, però, lei lo ha riaccolto a casa…
«Sì. Lui piangeva, diceva che a casa con la madre non riusciva a stare, che lei lo trattava male. Io ci cascavo sempre. Poi una sera voleva il mio bancomat, pretendeva che gli dicessi il pin. Io, dopo la solita razione di sberle e calci, sono scappata di casa e sono andata dai carabinieri. Quando lo hanno trovato, che vagava ubriaco e senza patente con la mia macchina, lui li ha aggrediti. È finita con l’arresto subito e poi un divieto di dimora a San Benedetto».

Il peggio doveva ancora arrivare.
«Il peggio è arrivato quando, per l’ennesima volta, ho fatto l’errore di credergli. Mi ha chiamato dicendo di essere molto malato, di avere ancora solo un anno di vita. Io, che intanto mi ero trasferita vicino a Ferrara, l’ho fatto tornare da me. Ma non lo amavo più. Non riuscivo ad avere più intimità con lui… Ma lui questo non lo capiva. E come al solito, quello che non riusciva ad avere con le buone, se lo prendeva con la forza. Mi ha fatto la cosa più atroce che si può fare a una donna. In quel momento ho pensato davvero di farla finita».

Ma qualcuno l’ha salvata.
«Malgrado mi fossi trasferita, sono rimasta in contatto con i carabinieri di San Benedetto. Sono stati loro a farmi aprire gli occhi. Mi dicevano: ‘Flavia, non vogliamo venirti a prendere in un sacco nero’. Quel giorno li ho chiamati. Sapevo solo piangere. Loro mi hanno aiutato, non solo facendo bene il loro lavoro, ma anche restandomi vicino, facendomi capire che quella sbagliata non ero io, che non dovevo subire più. E ora, che vivo nascosta in attesa che questa storia (spero) finisca, sono loro che voglio ringraziare, perché se ho avuto la forza di voltare pagina, è grazie a loro, ai miei angeli in divisa». Il Resto del Carlino