Bologna. Una tenda come ultimo rifugio. Clochard muore a parco Cavioni

Quella tenda, che da qualche anno era la sua casa, lo ha visto morire. Solo, come viveva, all’ombra del bosco. Leonardo Romani, 45 anni, riminese, dopo un passato di tossicodipendenza e la comunità, una separazione e un rapporto difficile con la famiglia d’origine, aveva scelto la strada. Ieri mattina, intorno all’ora di pranzo, alcuni dipendenti del maneggio di parco Cavaioni hanno visto il corpo, rigido, che spuntava dalla tenda. E hanno dato l’allarme alla polizia. Romani aveva scelto una piccola radura, al termine del sentiero che parte dal ristorante ‘Cà Shin’, per piantare la sua tenda. Un posto impossibile da raggiungere con i mezzi. Gli agenti delle Volanti e della Squadra mobile sono arrivati a piedi, dopo una camminata di una decina di minuti, in discesa, nel bosco.

Una strada che il quarantacinquenne percorreva ogni giorno in infradito, perché le scarpe non le sopportava. E lì lo hanno trovato, morto da almeno un paio di giorni. Forse un malore dovuto al freddo, forse un’overdose: vicino al suo corpo è stato trovato un laccio emostatico, ma nella tenda non c’era droga. Spetterà ora al medico legale stabilire le cause del decesso.

Quella tenda da campeggio era stata regalata a Romani, quando ancora la notte dormiva riparato con cartoni e coperte sotto al portico del Baraccano. «Ogni giorno scendeva col bus e passava a salutarmi. Aveva scelto la strada, ma non aveva perso la dignità», racconta Davide, barista del Caffè dell’Angelo di via San Mamolo, con cui scambiava sempre qualche battuta. Ogni giorno il quarantacinquenne prendeva due bus per arrivare ai bagni pubblici di via del Gomito, per farsi una doccia. «Aveva scelto di vivere in tenda, anche d’inverno, perché non voleva stare nei dormitori: diceva che c’era gente che non si lavava, che la notte non lo faceva dormire», dice ancora il barista. «Una volta – continua Davide – Leonardo aveva perso le sue infradito – non portava mai scarpe, diceva che lo facevano sentire costretto – e allora gli ho prestato 15 euro per comprarne un paio nuove. Il primo giorno del mese successivo me li ha restituiti: aveva una piccola pensione e se qualcuno gli prestava dei soldi, lui l’annotava su un taccuino, per poi saldare il debito appena possibile». Dopo la comunità, pare che il quarantacinquenne avesse smesso di drogarsi, ma avesse iniziato a bere. La sera tornava nel suo rifugio, scelto dopo un primo periodo in tenda passato a Villa Ghigi, «dove mi ha raccontato di essere stato mandato via dalla municipale», spiega ancora il barista. Ora quel boschetto, con le pentole vicino alle pietre sistemate per il falò, era la sua casa, d’estate e d’inverno. Anche con i vicini andava d’accordo. Quando era stato male, i titolari del Cà Shin gli avevano dato la tachipirina. Lui aveva accettato l’aiuto, spesso era ospite per qualche pasto. Ma poi tornava in tenda. Il suo ultimo rifugio, il suo triste destino. Il Resto del Carlino