Prendo a prestito e faccio mie alcune riflessioni ancora attualissime, pubblicate qualche tempo fa dall’amico e collega Arnaldo Capezzuto sul Fatto Quotidiano, per parlare di libertà di stampa.
Il racconto della verità è un’impresa che spesso suscita timori e reazioni avverse. Può infastidire chi detiene il potere, mettere in ansia i colletti bianchi e far arrabbiare i criminali. Una convergenza strana e interessata sembra essere in atto, tentando efficacemente di ostacolare il lavoro dei cronisti. Colpire i giornalisti sembra essere diventato uno sport molto praticato a San Marino.
Gli strumenti utilizzati per questo intento sono molteplici, ma l’obiettivo rimane costante: mettere fine all’attività giornalistica. Si va dalle aggressioni fisiche alle querele, dalle minacce alle pene detentive, dai condizionamenti al mobbing, dall’allontanamento dalle testate giornalistiche alle calunnie. In breve, alcuni ritengono che i giornalisti abbiano bisogno di essere “educati”.
Questo perché un giornalista, un media o un “blog” che riesce a scoprire i meccanismi nascosti dietro ai fatti diventa pericoloso. Diventa un soggetto non controllabile, una testa calda capace di arrecare più “danni” di un magistrato, di un poliziotto o persino di un collaboratore di giustizia.
Il giornalista non segue i ritmi della burocrazia, non agisce con protocolli burocratici, e non è costretto a seguire procedure rigide. Egli si infiltra, si camuffa, ascolta e registra. È diretto. Se sente l’odore di una notizia, diventa un investigatore e farebbe qualsiasi cosa per ottenere informazioni di prima mano, forse anche vendere l’anima.
Questo è il tipo di giornalismo che spaventa. Questo è il giornalismo d’inchiesta, molto diverso dalla semplice scopiazzatura delle veline per soddisfare gli interessi di terzi.
Nel corso della storia, ci sono sempre stati coloro che hanno cercato di proteggere gli affari, le collusioni, le condotte illegali, gli amici e le connessioni tra ambienti diversi ma sempre più vicini tra loro. È fondamentale per il vero potere nascondere la verità e controllare il gioco.
Ora, immaginate un giornalista tenace, uno di quelli che mette insieme pezzi di un puzzle, li smonta e li rimonta fino a scoprire la verità. Poi, senza paura, scrive il suo articolo o produce un servizio e lo rivela al mondo. Capite quanto possa essere pericoloso per i “manovratori” del potere? Capite perché il sistema non lo tollera? Capite che, a causa sua, tutti verranno a conoscenza della verità?
Questo tipo di giornalismo, con le sue parole incisive, frasi ben congegnate e documenti dettagliati, diventa una vera minaccia per chi vuole nascondere la verità. Questo è il vero rischio. Come fare a fermare questi giornalisti? Come impedire di continuare a scrivere nei loro taccuini? Come rompere l’obiettivo delle loro telecamere? Come impedirgli di ottenere scatti compromettenti?
I giornalisti sono sempre più nel mirino. Basta leggere i dati di “Ossigeno per l’Informazione,” l’osservatorio diretto da Alberto Spampinato, dove i casi di cronisti intimiditi in Italia sono in aumento. Il termine “intimidire” copre una vasta gamma di modalità violente, dalle minacce ai colpi di pistola spediti per posta, dagli ordigni piazzati sotto le auto ai raid nelle redazioni, dalle querele alle denunce, dai procedimenti penali temerari alle lettere di avvertimento, dalle percosse ai pedinamenti, dai licenziamenti all’esclusione dalle liste istituzionali di accredito giornalistico.
Un quadro sconvolgente.
Il problema non riguarda solo la libertà di stampa in senso stretto, ma anche la capacità di esercitare il proprio lavoro in sicurezza, in conformità con i sacrosanti principi enunciati dalla Cedu, dalla Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino e dalla Costituzione.
Chi scrive queste parole ha subito e continua a subire querele, minacce e intimidazioni personali a causa del suo lavoro di giornalista.
Tuttavia, dobbiamo smetterla di subire. Il giornalista non può semplicemente riportare i fatti in modo asettico. Se qualcuno cerca di impedirglielo, se qualcuno lo minaccia o lo aggredisce, deve affrontarne le conseguenze legali.
Onorare la memoria di giornalisti come Giancarlo Siani, ucciso nel 1985 per il suo impegno, significa non solo commemorarli con fiori e premi, ma anche abbracciare il loro messaggio di indipendenza, passione e verità.
A guidare la mia mano in questo scritto è stato, mi piace ribadirlo nuovamente, l’amico e collega Arnaldo Capezzuto, al quale pubblicamente prometto che nonostante sia sempre più difficile, continuerò a fare il mio mestiere con la schiena dritta.
David Oddone