C’era l’alternativa al lockdown: così avrebbe evitato il disastro

Con l’arrivo della pandemia di coronavirus in Europa sul finire dello scorso inverno, il Vecchio continente si è scoperto sotto attacco da un nemico troppo potente che non era in grado di combattere con le armi a propria disposizione. Per questo motivo e con la sola eccezione della Svezia, la strategia adottata è stata quella del lockdown, consistente nel blocco parziale o totale delle attività lavorative e di svago non essenziali al fine di limitare il diffondersi dei contagi. Una scelta drastica e senza dubbio difficile, che aveva l’unico obiettivo di salvare il maggior numero di vite umane in una situazione nella quale il sistema sanitario non era in grado di rispondere alle esigenze della popolazione.

La (dura) strada del lockdown

Parlando a posteriori, senz’ombra di dubbio, è decisamente più semplice trovare degli errori nelle condotte tenute dai governi europei. Il problema vero – e lo stiamo vivendo proprio in questi giorni – è dettato però dalla recidività dei comportamenti e delle contromisure che con ogni probabilità ci porterà nuovamente a vivere una situazione di crisi come quella della scorsa primavera. Questa volta, però, ogni scusante lascerebbe il tempo che trova, considerando soprattutto come la condizione attuale fosse facilmente preventivabile e di conseguenza evitabile.

Tuttavia, perseguire la strada del lockdown (ossia della ritirata, se ci riferissimo ad uno scontro militare) non era l’unica via possibile. Ciò, per esempio, si è potuto verificare con il caso della Svezia, che salvo qualche misura a tutela della popolazione più fragile ha deciso di affrontare a viso aperto il nemico nella speranza di salvaguardare almeno la tenuta economica del Paese. E, dati alla mano e contrariamente a quanto preventivato anche dall’Organizzazione mondiale della sanità, questo tentativo portato avanti da Stoccolma alla fine dei conti non si è rivelato poi così fallimentare.

Benché più complicato e forse non così “politically correct” come siamo abituati, ci sarebbe stata però anche una “terza via“, come riportato dal quotidiano italiano La Stampa ed esposto dal medico e biologo del Centro Einaudi Gianpiero Pescarmona. E questa strada, secondo le analisi, sarebbe costata all’incirca l’1% del lockdown e avrebbe al tempo stesso salvato un maggior numero di vite umane.

La “terza via” della convivenza con il coronavirus

Come esposto dal dott. Pescarmona, se nei mesi della scorsa primavera ci si fosse concentrati a mettere in sicurezza le componenti più fragili della popolazione lasciando al tempo stesso “liberi di contagiarsi” gli individui fisicamente più forti, si sarebbero evitati al tempo stesso morti e sprechi di denaro pubblico e privato. Come evidenziato dagli studi e dalle proiezioni, infatti, la vittima “preferita” del Covid-19 è l’ottantenne con almeno tre patologie pregresse, con soltanto una piccola parte dei morti che si possono riscontrare tra coloro che possedevano meno di 60 anni d’età.

Se si fosse limitato l’obbligo di confino domestico agli anziani ed alle persone fragili di salute, si sarebbero potute tenere aperte le attività commerciali e i posti di lavoro lasciati vacanti si sarebbero potuti facilmente rimpiazzare con l’impiego dei giovani. In questo modo, dunque, la popolazione più fragile sarebbe vissuta all’interno di una “bolla” di sicurezza e i contagi si sarebbero verificati soltanto tra quelle persone che con più semplicità avrebbero superato la malattia. E così, infine, si sarebbe salvata la salute dell’economia, con il numero maggiore delle morti che sarebbe stato sventato.

Una soluzione meno costosa

Sempre come riportato da La Stampa, l’attuazione di questa mossa avrebbe avuto dei costi irrisori rispetto a quelli sostenuti per applicare la strategia del lockdown: meno di cinque miliardi, contro i 224 risultati dall’aggregazione della spesa pubblica con le perdite del settore privato. Come mai, però, questa soluzione non è mai stata vagliata dal governo italiano, il quale invece ha preferito allinearsi con le direttive standard dell’Oms e con il comportamento degli altri Paesi membri dell’Unione europea?

Benché sia fuori discussione che un’analisi di questo tipo sia il frutto di mesi di lavoro e fosse difficilmente intuibile e applicabile nei primi giorni di crisi, con l’arrivo della seconda ondata – se così si può definire – adesso sarebbe però tutta un’altra storia. Ancora una volta, però, la strada intrapresa sembra essere quella già battuta lo scorso anno, nonostante le mille complicazioni che comporta un regime di lockdown, soprattutto per quanto riguarda lo stato di salute dell’economia.

In fondo, farsi trovare impreparati nell’attuazione di una tattica difensiva contro un nemico che non si conosce è umano. Capita a tutti, tutti i giorni e in tutte le situazioni, ma l’importante è trarne un’esperienza che permetta di affrontare la medesima problematica in modo migliore qualora essa si ripresenti davanti; il vero problema, purtroppo, nasce quando nonostante l’esperienza non si maturano quelle capacità necessarie in grado di fornire una soluzione più efficace. E proprio questo, in fondo, è quello che sta accadendo in tutta l’Unione europea e – purtroppo – anche nel nostro Paese.


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