VITTORIA MAIOLI SANESE è psicologa della coppia e della famiglia. Ha fondato nel 1970 il Consultorio Famigliare (associato UCIPEM) di Rimini, di cui è tuttora direttore. Oltre al lavoro clinico con le coppie, guida da anni gruppi di riflessione e di formazione per genitori, operatori sociali, educatori, psicologi. Ha svolto svolge un lavoro di ricerca sulla coppia e sulla famiglia dal punto di vista psicologico, esistenziale, sociale, culturale e antropologico. Numerosi i suoi interventi in convegni, congressi e seminari.
Introduzione del libro “Chi sei tu che mi guardi” scritto da Vittoria Maioli Sanese “Chi sei tu che mi guardi”. Questo titolo mi ha sorpreso, è entrato nel mio pensiero, è entrato nel mio pensiero quando stavo considerando la possibilità di continuare un dialogo con voi intrapreso con “Ho sete per piacere”, attraverso una tenerissima esperienza con un bimbo di tre anni.
“Ti posso fare una carezza?”. Il suo sguardo sorpreso (non era forse abituato al fatto che qualcuno gli chiedesse i permesso di qualcosa) mi scruta fisso, poi con la testa leggermente mi dice no. Lo incalzo “Ti posso parlare?”. Ancora no e ancora uno sguardo fisso ai miei occhi (continuavamo a guardarci). “Posso farti un sorriso?” Leggevo nei suoi occhi sorpresa, divertimento, ma anche “Cosa vuole questa?”.
Ancora no.
Poi la domanda dell’azione apparentemente più innocua, di ritirata, di accettazione di tutti i suoi rifiuti.
Apparentemente, appunto. “Ti posso guardare?”.
Finalmente la parola: “No, solo la mamma”.
Solo la mamma può guardarlo, scrutarlo, parlargli, accarezzarlo.
Chi sei tu che mi guardi.
Chi sono io che ti guardo? Ma anche: “Chi sei tu che mi guardi” fino a “Chi sono io che ti guardo”.
Certamente, ragionevolmente, anche queste pagine, che sono per me un po’ di dialogo, di “conversazione” con voi, si portano dentro il limite e il pregio della parzialità, dell’essere solo uno spunto, un incipit di pensiero, di riflessione, con la pretesa di collocare ogni questione come apertura, come passaggio, come corridoio aperto e arioso che parte da un’origine sempre da ricordare e va verso uno scopo sempre da considerare.
In questo percorso del nostro esistere all’origine c’è uno sguardo che ci definisce, c’è l’esperienza che ci porta, ci conduce dentro la vita e dentro la nostra identità che passa attraverso lo sguardo di quel padre e di quella madre, e poi di quel nonno e di quella nonna, e anche di quella maestra, di quel professore.
Impronta, carne, fardello, storia, percorso, origine e meta.
Nel mio lavoro con i genitori in tutti questi anni ho sentito una domanda e un bisogno sempre più forti e sempre più urgenti.
Ma è tutto un problema di sguardo? E’ prima di tutto un problema di sguardo.
Ecco, direi che le pagine di questo libro, le mie parole (imparate) vogliono essere, e spero tanto che lo siano, un aiuto a pulire lo sguardo, a educare lo sguardo, a guardare ciò che nella vicenda famigliare, nel grande evento di un legame generativo, davvero genera. Mi piace pensare che ci incontriamo di nuovo attraverso queste pagine non come sconosciuti capitati insieme al
tavolo di un matrimonio, ma come compagni di viaggio.
Camminare insieme, essere certi di non essere soli, imparare, imparare a guardare, mi sembra che sia un’esperienza essenziale della nostra umanità; nelle mille forme che prende. Questo mio libro si propone come una di queste forme dell’essere insieme nel percorso, una delle forme di aiuto al bisogno che ogni istante ci coglie, soprattutto quando nel legame, e nel legame affettivo costituito, sentiamo vibrare forte che sono in gioco la vita, il passato ed il presente, il futuro, il compito educativo, la crescita dei ragazzi, con l’esigenza profonda di un significato che soddisfi la domanda mai sopita.
C’è in me una grande preoccupazione; non è pessimismo e non è una visione tragica. E’ una preoccupazione che nasce da un dolore: non so la causa e forse, al fondo, neanche n’interessa analizzarla. Vedo matrimoni falciati, ragazzi falciati, scuola falciata, sentimenti falciati: tutto è uguale a tutto; tutto vive un attimo, niente è più legato, niente ha più consistenza, anche ciò che genera suggestione profonda perde il proprio valore in un istante.
Tutto è digerito, e per quello che, per la sua portata, resta un po’ sullo stomaco, si ricorre a sciroppi anestetizzanti (televisione, ricerca di emozioni, realtà virtuale, stordimenti vari). La fatica, la sofferenza, persino (o soprattutto) la morte sono fantasmi presenti da temere e da evitare. Si evita la vita, la conoscenza della vita.
Ma c’è una legge impietosa: evitando la sofferenza si evita anche l’amore, la gioia intensa, la ricerca di soddisfazione che resti sulla vita come certezza.
Questa è la mia preoccupazione guardando la famiglia, i ragazzi che crescono, la coppia. Ci siamo armati di falci potenti e non sappiamo più distinguere la gramigna dal grano.
Ricominciare ogni giorno. Esserci. Rimanere, rimanere in relazione con se stessi, rimanere dentro di se per impararsi e
imparare i propri desideri e il proprio compito.
Si, si ricomincia da uno sguardo capendo cosa passa nello sguardo.
Spero con tutto il cuore che anche la parola scritta possa trasmettere non delle idee, ma uno sguardo.