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  • Ci vuole metodo

    L’acqua, liquido vitale, sono i fiancheggiatori, uomini d’onore o insospettabili che, occupandosi del quotidiano del padrino di Castelvetrano, trovandogli il rifugio, costruendo il suo bunker segreto, portandogli il denaro che gli ha consentito non solo di andare avanti, ma anche di non rinunciare al lusso che ha sempre amato, l’hanno protetto, coperto, sostenuto.

    Sembra un metodo intuitivo, elementare. Non lo è. Anzi, chi come l’ex procuratore aggiunto di Palermo Giuseppe Pignatone questo metodo l’ha sperimentato con successo con un altro ricercato eccellente, il boss corleonese Bernardo Provenzano, è stato spesso accusato di pensare ai ladri di polli, ai pecorai invece di puntare alle vere coperture, alle collusioni istituzionali, alla Spectre, insomma, che tutto sa e tutto muove. Critiche spesso venute proprio da magistrati, che non hanno però condizionato il procuratore di Palermo Maurizio de Lucia e il suo aggiunto, Paolo Guido, che a Messina Denaro dava la caccia da 15 anni  e che di tentar di prosciugare l’acqua che nutriva il capomafia trapanese non ha mai smesso. Così, nel tempo, in carcere sono finiti prestanomi che, riciclando i miliardi del boss, hanno fatto fortuna, pesci apparentemente piccoli, sorelle, fratelli, nipoti e cognati di Diabolik, soprannome col quale in Cosa nostra Messina Denaro era chiamato. Una operazione che ha colpito a tappeto. E che, ancora una volta, ha dato i suoi frutti. Perché se sei un uomo braccato puoi affidare la tua vita solo a chi ti è fedele. La riprova? Diabolik si nascondeva a Campobello di Mazara, otto chilometri dal suo paese, a casa di un nipote di un vecchio mafioso, e si rivolgeva al suo entourage per andare avanti.  

    Il metodo, dunque, ha funzionato e sulle tracce dell’ex latitante si è arrivati grazie alle mezze frasi intercettate e sussurrate dai familiari, quell’acqua vitale nella quale per 30 anni ha galleggiato il boss. Parole solo accennate che hanno confermato i sospetti dei pm: Matteo Messina Denaro è un uomo malato. Quindi ha bisogno di cure. Un input essenziale che, attraverso una capillare indagine che ha sfruttato database del ministero della Salute con informazioni su pazienti compatibili col padrino per età, provenienza e patologie, ha fatto scattare il blitz.  

    Matteo Messina Denaro non si è consegnato. Forse era stanco di fuggire, forse era depresso perché sa che non gli resta molto da vivere, ma dietro alla sua cattura non c’è nessuna trattativa oscura.  

    “L’unica cosa che non è riuscito ad evitare è stata la malattia. La salute è un fatto democratico”, ha detto l’aggiunto Paolo Guido. E’ andata proprio così. 


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