Matteo Renzi è tornato nella sua Pontassieve «a fare l’autista» a moglie e figli. Ha espresso dubbi persino sul partecipare, oggi, alla Direzione nazionale del partito che, pur convocata in modo «permanente», mercoledì scorso ha visto solo la relazione del segretario, ma senza apertura di alcun dibattito.
Renzi spiega ai suoi: «Non vorrei parlare in pubblico per un mese. Vorrei che si parlasse del governo di Gentiloni, dei problemi del Paese, non di me. Il confronto, anche duro, che ci dovrà essere, dentro il Pd, si trasformerà in una corrida, vorrei evitare succeda oggi per rispetto a Paolo». Alla fine, però, oggi il segretario parteciperà alla Direzione, ma lo scontro vero si aprirà subito solo nel fine settimana.
Infatti, l’Assemblea del Pd, massimo organo del partito, è stata convocata per il 18 dicembre. Sarà lì che Renzi potrebbe annunciare le dimissioni anche da segretario, come è pure tentato di fare. Se non si dimettesse, già eccepiscono in molti, il congresso andrebbe indetto non prima di sei mesi del suo svolgimento. I suoi lo frenano e stanno cercando un modo per indire lo stesso il congresso subito.
Renzi ha già individuato due date possibili, molto ravvicinate tra loro: il 26 febbraio o il 5 marzo per tenere il «giorno glorioso» che determina la fine del congresso, la celebrazione delle primarie, ovviamente «aperte» a iscritti e non del Pd purché firmino la «carta degli intenti» e versino un piccolo obolo. L’obiettivo è fare il congresso il prima possibile per andare a elezioni una volta fatta la nuova legge elettorale, il prima possibile (giugno).
In ogni caso, che vada oggi in Direzione, come sarà, e che si presenti, o meno, dimissionario all’Assemblea nazionale, resta il fatto che Renzi e i suoi stanno per lanciare l’ultima sfida, quella della vita: congresso straordinario del Pd per ottenere, subito dopo, le elezioni. Per quanto riguarda il congresso, due strade, entrambe perigliose. La prima, quella più hard, farebbe infuriare la minoranza al punto da dire «gioco falsato, regole farlocche, noi non giochiamo più», con conseguenze disastrose per il Pd: la scissione sarebbe più vicina.
La strada è il congresso «volante». Vuol dire saltare le istanze di base (congressi di circolo e federazione, riservati solo agli iscritti, e congressi regionali, che comunque si devono tenere dopo il nazionale) e fare solo le primarie nazionali per la candidatura a segretario e la premiership, coincidenti per Statuto. La selezione della classe dirigente starebbe solo nelle «liste» collegate al candidato segretario premier per comporre la nuova Assemblea nazionale la quale poi elegge la Direzione.
Sarebbe una forzatura che troverebbe non solo l’aperto dissenso della minoranza dem, l’area di Speranza e Bersani che, con Davide Zoggia, chiede apertamente a Renzi «di dimettersi, di scindere le figure di segretario e candidato premier e di fare un congresso vero». Anche Area dem (Franceschini) e i Giovani Turchi – ieri hanno parlato sia Matteo Orfini, per assicurare che «nel momento in cui si apre il congresso, la gestione la fa un organismo terzo» che Andrea Orlando che vuole «ripensare il Pd», ma non si candiderà contro Renzi – potrebbero nutrire dubbi e perplessità frenando l’impeto dei renziani che, sostanzialmente, puntano a primarie «confermative» modello Prodi 2005 più che Bersani 2012, quando vinse contro Renzi.
Ecco perché la seconda strada, più soft, oltre che classica, dovrebbe prevalere. Congresso ordinario con tutta la trafila: congressi – che i renziani chiamano «convenzioni», con meno poteri di elezione – di circolo e provinciali, riservati ai soli iscritti, selezione delle candidature per il congresso nazionale e, infine, elezione del segretario-candidato premier tra i diversi candidati con primarie «aperte», dove cioè votano tutti gli elettori. In ogni caso, i tempi resterebbero gli stessi. Dalla data di indizione (18 dicembre) al giorno delle primarie (26 febbraio o 5 marzo) Renzi vuole chiudere la pratica congresssuale in due mesi.
Al segretario non interessa nulla della trafila burocratica dei ‘congressini’ – che verrà gestita, come al solito, dall’uomo d’ordine, e ordinato, Lorenzo Guerini – ma la sfida finale: punta a una piena legittimazione popolare («almeno due milioni di voti»). «Vincere dopo», spiegano i suoi, sarebbe troppo tardi per tutto, soprattutto per preparare una campagna elettorale per delle Politiche anticipate (da tenere a giugno, non oltre) che sarà ben più sanguinosa. Il Resto del Carlino