
Il Conte-ter è tramontato ancor prima di sorgere, secondo le indiscrezioni che trapelano dai palazzi del potere di Roma. Prossima al fallimento l’operazione “responsabili” (o “costruttori” che dir si voglia) anche dopo l’illusione della creazione di un gruppo autonomo al Senato, gli Europeisti, con l’appoggio di politici già apertamente contiani, chiuso a un reincarico immediato Matteo Renzi con il gruppo di Italia Viva e attento a rispettare il dettato costituzionale e ad evitare soluzioni al buio il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, il premier vede avvicinarsi sempre di più la fine della sua permanenza a Palazzo Chigi.
Corrado Ocone su Formiche ha definito come una rivincita della politica il fatto che le dimissioni, motivate da un’ampia serie di ragioni, della compagine di governo di Italia Viva abbia di fatto accelerato le dimissioni del governo Conte II: “il presidente del Consiglio uscente, che ha senza dubbio la dialettica dell’avvocato e l’affabilità dell’uomo di mondo, di fronte a questa forza toto politica era difficile che la spuntasse”, nonostante avesse dalla sua la rendita di posizione di Palazzo Chigi e l’appoggio di Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico. Certo, in Renzi ambizioni personali e critiche al premier si confondono, e il protagonismo del senatore fiorentino non è minore di quello dell’attuale inquilino di Palazzo Chigi, ma il fatto che l’ex premier abbia portato la sua guerra di logoramento contro la persona di Conte a un passo dal successo è un dato di fatto.
E se per Conte si aprisse il peggiore degli scenari, ovvero una nuova maggioranza con Italia Viva che escluda la sua persona dalla guida del governo e allontani le elezioni, il premier non dovrà rimpiangere nient’altro al di fuori di una serie di errori che testimoniano la sua difficoltà ad abituarsi alle logiche della politica ordinaria.
I tre errori di prospettiva del Conte II
In primo luogo, Conte ha pagato la sua presunzione di intoccabilità. La pandemia ne ha esaltato la centralità, la fabbrica del consenso mediatica e social guidata da Rocco Casalino ne ha valorizzato più volte la presenza scenica, specie in occasione delle fasi più critiche dell’emergenza e dell’emanazione dei nuovi Dpcm, facendo passare agli occhi dell’opinione pubblica l’impressione che Conte fosse lo statista imprescindibile per la salvezza del Paese. Il premier si è dimenticato che a una crescente centralità nell’esecutivo corrispondono oneri legati all’amministrazione del Paese. E quando i nodi sulla gestione della pandemia e sulla crisi economica sono venuti al pettine, le responsabilità del premier nell’insufficiente programmazione della risposta alla seconda ondata e delle politiche anti-recessione sono emerse in tutte la loro nitidezza.
Secondo errore, Conte ha pagato lo sgraziato protagonismo con cui ha voluto personalizzare la gestione di dossier cruciali per il sistema-Paese. Trovandosi nella delicata situazione di essere una figura depositaria di un forte consenso personale ma priva di un partito alle sue spalle Conte ha provato a saldare il suo consenso nelle burocrazie strategiche, prima fra tutti quella dell’intelligence che ha presidiato con suoi fedelissimi fino al punto da portare la maggioranza giallorossa alla rivolta esplicita contro il suo rifiuto a cedere le deleghe per il coordinamento dei servizi. Renzi ha tacciato Conte di “analfabetismo istituzionale” per questa scelta, su cui poi Conte è ritornato nominando, pochi giorni prima delle dimissioni, l’ambasciatore Piero Benassi come autorità delegata per la sicurezza della Repubblica.
Il terzo errore è, al tempo stesso, un errore di Conte e dei partiti maggiori che ne sostengono il governo, Pd e Movimento Cinque Stelle. Da un lato contenti di trovare in una figura “terza” un punto di sintesi di una complessa alleanza e di evitare a un proprio uomo le responsabilità dell’amministrazione nell’ora più buia della storia recente del Paese, ma dall’altro privi della necessaria forza politica per dettare tempi e ritmi all’agenda politica. E di conseguenza costretti a focalizzarsi sull’operato personale dei singoli ministri o a seguire i condizionamenti legati ai ritmi dettati al governo dal presidente del Consiglio. Che a lungo è riuscito a tenere assieme l’impossibile, facendo passare agli occhi dei pentastellati il via libera alla riforma del Mes, difendendo davanti a Italia Viva politiche come il reddito di cittadinanza e facendo digerire ai dem il giacobinismo giustizialista incarnato dal ministro della Giustizia pentastellato Alfonso Bonafede. Rifiutare l’idea di mettere a terra un’agenda di lungo periodo è stato un errore di Conte e dei partiti che M5S e Pd hanno pagato duramente quando Italia Viva, piccola e agguerrita scheggia impazzita, ha iniziato a pungolare sui ritardi dell’esecutivo.
Tre errori, una causa?
I tre errori macroscopici del Conte II hanno sostanzialmente un minimo comune denominatore. Perché, in sostanza, Conte ha voluto diventare dominus dell’esecutivo, travalicare i confini delle sue prerogative di premier e si è sentito di avere più forza politica di quanta gliene avesse data la sua natura di uomo “elevato” da forze terze a Palazzo Chigi? In sostanza perché Conte si è ritenuto rafforzato di fronte a partiti e ministri dal pensiero secondo cui le dinamiche internazionali lo avevano reso il referente dell’Italia agli occhi delle cancellerie internazionali.
Per circa un anno e mezzo, durante il suo primo governo, Conte ha costruito una fitta rete di alleanze e amicizie con i grandi della Terra: da Angela Merkel a Donald Trump, da Vladimir Putin a Papa Francesco. Specie sull’asse euro-atlantico Conte ha voluto pensarsi come uomo decisivo e pontiere dei rapporti internazionali dell’Italia. Il sostegno di Donald Trump e dell’Unione Europea al suo re-incarico nell’agosto 2019 dopo l’uscita della Lega dal governo lo aveva rinfrancato in questa sua assunzione. Che scontava una concezione personalistica dei rapporti internazionali: e così, mese dopo mese, quando in Europa i risultati non sono arrivati e sul fronte dei rapporti con gli Usa le mine (Cina, Venezuela, Iran) hanno iniziato a essere sempre più numerose l’appannamento della stella di Conte si è fatto sempre più palese.
Conte non ha mai fatto mistero di questa sua percezione, parlando apertamente dell’aumento del prestigio dell’Italia agli occhi dell’Europa e del mondo. Mese dopo mese, però, le sue aspettative sono sempre di più state deluse mano a mano che i referenti internazionali dell’Italia tornavano ai loro tradizionali interlocutori: Usa ed Ue, ad esempio, hanno nel Partito Democratico, in seno alla maggioranza, solidi ancoraggi. E mano a mano che Conte vedeva la sua azione di governo perdere efficacia, anche l’idea di essere il faro dell’Italia di fronte al mondo si avviava a un inesorabile declino. Le critiche Ue al Recovery Fund italiano e l’avvicendamento alla Casa Bianca tra Trump e Joe Biden hanno fatto il resto: per Conte è sempre stato più difficile rivendicare il suo prestigio internazionale come fattore di condizionamento della politica interna.
L’errore finale: la sfida in Senato
Fin qui abbiamo parlato degli errori “strutturali” che hanno indebolito alle fondamenta il Conte II. Veniamo ora allo sbaglio decisivo, il quarto punto. Conte ha sbagliato totalmente la gestione della fase di crisi apertasi formalmente a gennaio con la dimissione dei ministri di Italia Viva ma latente de facto dalla rivolta dei renziani sulla gestione del Recovery Fund a dicembre. Conte avrebbe potuto minacciare allora le dimissioni da una posizione di forza o evitare la conta alla Camera e al Senato del 18 e 19 gennaio scorsi. Ha preferito accettare la sfida della fiducia risultando dimidiato a Palazzo Madama, privo del sostegno della cavalleria di responsabili e coinvolto in un indecoroso processo negoziale volto a creare dal nulla un progetto politico “centrista, europeista, liberale e moderato” con cui catalizzare il sostegno dei centristi e, per aggiunta, strizzare l’occhio anche ai leader europei come Angela Merkel. Nel tentativo di recuperare un ancoraggio internazionale che per un leader indebolito e privo di una sua formazione politica pronta a debuttare nell’agone elettorale è sempre più difficile pretendere di mantenere.
Una strategia denigrata anche da un navigato esponente della maggioranza come Pierferdinando Casini: per l’ex leader Udc Conte “ha buttato via 15 giorni, facendo un errore enorme, con una caccia ai voti degradante e, per giunta, fallita. Si è delegittimato agli occhi dell’opinione pubblica, le sue ragioni non sono emerse, perché l’aritmetica non è mai politica”, ha dichiarato Casini in un’intervista a La Stampa in cui, causticamente, ha aggiunto di aver imparato nella sua lunga esperienza “che nessuno è insostituibile e non esistono salvatori della Patria: dopo Conte non c’è certo il diluvio”, al contrario di quanto “Giuseppi” possa aver pensato.
Si può dire, anche legittimamente, di tutto per criticare l’arrivismo di Renzi, la sostanziale incoerenza di molte sue mosse con l’atteggiamento mostrato da Iv durante la sua permanenza al governo, l’ambiguità delle manovre del senatore fiorentino, ma nessun discorso su questi temi riduce anche solo minimamente le responsabilità di Conte nel rendere precaria la sua posizione a Palazzo Chigi. Protagonismo e pressapochismo si sono sommati nel minare la credibilità e la tenuta dell’esecutivo in una fase critica per il Paese, il cui rilancio è stato trascurato in nome di una lotta di potere tra litigiose prime donne. Indipendentemente da chi sarà il successore di Conte, la cui stella appare sempre più prossima al tramonto, proprio dalle inquietudini a cui il governo giallorosso non ha dato risposta il prossimo esecutivo dovrà ripartire. Dall’industria al lavoro, dal rilancio della sanità alle sfide di un mondo sempre più inquieto, l’Italia ha bisogno di un’agenda ambiziosa e realistica.
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