In un’aula giudiziaria marchigiana, una disputa nata sui social ha trovato risoluzione in un verdetto che privilegia la trasparenza sui fatti accertati, offrendo un precedente significativo per chi sceglie di denunciare abusi pubblicamente. Al centro della vicenda, un uomo originario di Rimini, attualmente disoccupato e con un passato segnato da condanne per maltrattamenti, che ha tentato di trascinare in tribunale la sua ex compagna, una donna di trent’anni residente a Pesaro, a causa di un breve video diffuso su TikTok.
Nel contenuto condiviso dalla trentenne, emergeva un racconto personale di sofferenza: l’ex partner aveva attentato alla sua vita, e lei esortava altre donne a opporsi ai soprusi, ribadendo che le donne non rappresentano oggetti su cui esercitare diritti di possesso. Senza menzionare nomi specifici, il messaggio mirava a incoraggiare una ribellione collettiva contro dinamiche oppressive, ma ha innescato la reazione dell’uomo, che si è percepito leso nella reputazione e ha avanzato una richiesta di risarcimento danni per 15mila euro, unitamente alla cancellazione di un debito accumulato di 12.588 euro derivante da precedenti sentenze per stalking e lesioni ai suoi danni.
La contesa affonda le radici nel 2021, all’indomani della rottura di una relazione tormentata, che ha generato un intreccio di procedimenti civili e penali. Assistita dall’avvocata Eva Ragaini, la donna aveva già ottenuto riconoscimenti giudiziari contro l’ex, inclusa la notifica di un atto di precetto per il pagamento dei danni subiti. Questa volta, il tribunale di Pesaro, presieduto dalla giudice Sabrina Carbini, ha esaminato il caso con attenzione: la narrazione della propria esperienza non costituisce diffamazione quando si basa su eventi reali e provati, e lo sfogo appariva commisurato alle numerose offese patite, motivato da un’esasperazione comprensibile.
I precedenti penali dell’uomo rafforzano il quadro: una condanna nel 2023 a due anni e otto mesi per maltrattamenti, seguita da un’altra nel 2024 a San Marino, con una pena di un anno e quattro mesi per reati connessi alla stessa storia, che includevano pedinamenti, appostamenti, aggressioni e minacce. In difesa, l’uomo ha argomentato di non aver potuto rispondere online a causa degli arresti domiciliari e di aver subito un danno d’immagine dal video, ma senza produrre perizie, relazioni mediche o evidenze concrete di pregiudizi effettivi.
Il risultato ha visto il rigetto della sua istanza, con l’obbligo di coprire le spese processuali, e ha affermato un principio cardine: quando una donna espone pubblicamente fatti verificati dalla giustizia, non può essere silenziata. Per la pesarese, questa sentenza rappresenta non solo un trionfo individuale, ma un’affermazione che convertire il trauma in testimonianza è un diritto tutelato, con il sistema giudiziario a fare da baluardo per chi osa alzare la voce. Un esito in linea con l’assoluzione già ottenuta in un parallelo procedimento penale, che rafforza il messaggio di empowerment contro la violenza nascosta.