“Due mosse per far cadere Renzi”. Ecco chi è il puparo della sinistra

renziIl braccio di ferro di Matteo Renzi con il voto di fiducia sulla riforma elettorale per ora lo vede vincitore senza grosse difficoltà. Poco possono e riescono i dissidenti dell’area di sinistra del Partito democratico per frenare l’avanzata del loro segretario, qualche strillo, pochi veri gesti concreti e soprattutto un’azione corale totalmente disorganizzata. Lo stato confusionale della minoranza Dem sta tutta nella figura di Pier Luigi Bersani che, come scrive il Fatto quotidiano, quanto a strategie politiche indovinate non è mai stato il primo della classe. Proprio quell’incertezza dell’ex segretario avrebbe portato una cinquantina di colleghi di area a votare la fiducia così aspramente criticata, ma solo a parole.

“Ascolta me” – È evidente che al manipolo di parlamentari minoritari Pd serve una guida, un leader. Fatto fuori dalla dura realtà Bersani, non contando neanche per scherzo Gianni Cuperlo o Pippo Civati, c’è solo una persona in grado di minare la leadership di Renzi: Massimo D’Alema. Baffino anzi starebbe già lavorando dietro le quinte per piazzare trappoloni letali al premier. Il Foglio attribuisce all’ex presidente del Consiglio le dimissioni di Roberto Speranza da capogruppo Pd alla Camera. E il giovane lucano anziché seguire i consigli, se ci sono mai stati, del padre spirituale Bersani, ha preferito affidarsi mani e piedi a D’Alema, con il quale si sarebbe incontrato più volte in zona Prati, dove Baffino ormai ha piazzato il quartier generale a casa sua.

La strategia – Gli incontri tra Speranza e D’Alema, secondo il Fatto, non sono stati solo ricchi di consiglio spassionati, ma anche di cazziatoni. Per esempio dopo il voto della minoranza sulle pregiudiziali costituzionali dell’Italicum, per D’Alema un grave errore concesso a Renzi. Per il Leader Maximo la linea da tenere non può ammettere sbavature o debolezze affettive, come quella esternata da Bersani quando ha confessato: “Io amo troppo il Pd, è come mio figlio, non me ne andrò mai”. E chi lo ha detto? D’Alema non esclude niente, neanche una scissione, anche se avrebbe preferito far saltare il tavolo sul Jobs Act, più incline alle sue millantate affinità, che sulla riforma elettorale. Nel disegno dalemiano ci sono due vie da seguire, consegnate nelle mani di Speranza. Una è quella di arrivare alla conta per il voto dell’Italicum a Palazzo Madama, dove i numeri per Renzi sono più risicati. Se le minoranze Dem si tirassero tutte indietro, verrebbero allo scoperto i salvagente di Denis Verdini e là si potrebbe “scassare fino in fondo”. Fassina e Civati non se lo farebbero ripetere due volte l’invito ad entrare in un gruppo parlamentare autonomo dal Partito di Renzi.

La resa dei conti – Sul lungo periodo invece non è mai tramontata l’idea di D’Alema, concordata con Bersani, di riprendere il partito in mano. Alle Regionali i transfughi nel Pd dai partiti di centrodestra stanno facendo saltare i nervi a più di un dirigente rosso. E facendo eco a Palmiro Togliatti, D’Alema insiste che: “I rami dell’albero vanno segati stando dentro, non fuori”. L’obiettivo è il congresso del 2017, quando Renzi potrebbe candidare alla segreteria l’attuale vice Guerini. Speranza a quel punto sembrerebbe un gigante e la spinta del malcontento interno, sul quale D’Alema soffia come ad un barbecue, potrebbe essere determinante per il grande ritorno. Libero