La vita di un’anticonformista che sognava le favole. Che era cresciuta da mondina, ed era arrivata a sposare il «conte volante». Per poi diventare l’amante di Guttuso
Marta Marzotto ha avuto tante vite ed era molte cose. Era la dodicenne col papà ferroviere e un solo paio di scarpe che faceva la mondina nelle risaie della Lomellina e scriveva poesie che s’imbucava da sola sotto la porta, convincendosi che gliele aveva spedite il principe azzurro. Era la quindicenne dalla lunghissima treccia che faceva la pendolare con Milano e posava undici ore al giorno nell’atelier di Gigliola Curiel, immobile, mentre le cucivano addosso abiti che, un giorno, diceva, si sarebbe potuta permettere anche lei. «Guardavo con invidia le “volanti” che già sfilavano e potevano permettersi piccoli visoni invece del lapin», mi ha raccontato una volta. Le “volanti” erano Cristina Vettore che avrebbe sposato Henry Ford, Maria Girani che avrebbe sposato l’editore del Tempo Renato Angiolillo.
Il matrimonio
Ma lei fu la prima a sposarsi, giovanissima e invidiatissima. Per lei il principe azzurro si materializzò un giorno al Lido di Venezia. Ormai sfilava anche lei. Umberto Marzotto era uno dei “conti volanti” i celebri figli – tutti piloti – di Gaetano, il magnate dei tessuti. Fu un colpo di fulmine. «Mi vide sfilare, poi invitò tutte le modelle a una festa in barca e lì mi prese per mano e scappammo a una cena al Cipriani. Entrammo correndo e, non so perché, quando attraversai la sala, tutti mi applaudirono», ricordava Marta. Fu Gigliola, la sarta, a convincere il conte padre che la ragazza era perbene, e soprattutto, illibata. Si sposarono di nascosto, alle otto e mezzo del mattino, il 18 dicembre 1954, nella Chiesa del Santo Sepolcro. «Io pensavo di essere a Milano solo per conoscere mio suocero Gaetano. Lo incontrai all’Hotel Duomo un venerdì sera, tremolante di paura, e la mattina dopo ero in chiesa, con lo stesso vestito in cachemire beige della sera prima», raccontava lei. Andarono in viaggio di nozze sul panfilo di famiglia a cui il suocero teneva così tanto che l’aveva prestato solo a Frank Sinatra, passarono Natale e Capodanno a Palazzo Grimaldi dal principe Ranieri di Monaco. La favola delle poesie imbucate sotto la porta si era realizzata, si allocava nella scenografia mirabolante del cinquecentesco Palazzo Stucky a Portogruaro, settemila metri quadrati, con arazzi, tele del Tiepolo e di Pelizza da Volpedo. Guardarobiere, aereo privato, tovaglie magnifiche, cristalli baccarat, argenti. Un marito così innamorato che la lasciava attraversare i saloni selvaggia, a piedi scalzi: «Mi amava alla follia e gli andavo benissimo com’ero», diceva lei, dicendosi fortunata, piuttosto, perché almeno suo suocero le aveva insegnato come stare al mondo: «Dalle donne dell’aristocrazia, ai tempi, ci si aspettava che avessero figli, e io ne ebbi cinque, e poi che gestissero la servitù, la casa, organizzassero i ricevimenti, meglio se erano colte abbastanza da fare conversazione». Una figlia la perse troppo presto. Annalisa fu portata via a 32 anni da una fibrosi cistica e fu per Marta il dolore più grande. Da allora, non smise mai di raccogliere fondi per quella malattia.
L’incontro con Guttuso
Ma prima, erano venuti gli anni furibondi e felici. Era stato il suocero, ancora lui, ad appassionarla all’arte. E l’arte era stata la fine di un amore e l’inizio di un’altra vita. Era venuto da lì l’incontro con Renato Guttuso, il maestro sposato a un’altra, pittore ufficiale del Partito Comunista e presto amante pubblico e scandaloso della «contessa», di Marta diventata la signora di «una casa sopra Piazza di Spagna», titolo del suo primo libro, calato nel dopo Dolce Vita romano. Ed erano tempi in cui le adultere rischiavano il carcere. Ma lei non ci badava, era la musa di Renato, era – per lui – Martina. «Ogni volta che andavo da lui, Mimise, sua moglie cadeva, si faceva male, invocava soccorso. Un giorno, le dissi: “Signora, io non sono malmaritata, non scodellerò figli a suo marito, stia tranquilla: lui non la lascerà mai”», ricordava Marta in una di quelle lunghe chiacchierate in cui amava tener banco ed era tutto un “io, io, io” che però non stancava nessuno. Suo marito Umberto, antico lignaggio e savoir faire, quando lei gli chiese se voleva almeno separarsi, rispose: «Ma no, sei pazza?». Divorziarono tempo dopo, negli anni Novanta. Restano di quell’amore clandestino celebri quadri e memorie di epiche liti, anche per via dell’altro amore impossibile di Marta: Lucio Magri, l’intellettuale comunista che viveva a due passi da casa Guttuso e che il maestro fino alla morte avvenuta nel 1987, un po’ tollerava e un po’ osteggiava. Una volta,in una lettera, le scrisse: «Ave Martina… E liberaci dal Magri, Amen».
Chi era Marta
Marta non ha mai smesso di essere anticonformista e soprattutto vulcanica ed energica. A settant’anni, portava carovane di amici a visitare la Libia ancora sconosciuta ai turisti, e fino alla fine ha promosso restauri di quadri che andava a scovare in chiesette sperdute d’Italia, ha disegnato abiti e chincagliera che riusciva a vendere ad amiche abituate a “smeraldi a colazione” e questo è il titolo dell’ultimo libro, scritto con Laura Laurenzi, per Cairo Editore. Era stata una gioia. Il suo ego giustamente affermativo non aveva perdonato a chi firma questo pezzo d’aver scritto, con Bruno Vespa, un libro su Maria Angiolillo anziché su di lei. Poi, noi due, avevamo fatto pace, un’estate fa. Era troppa la felicità, per Marta, della sua ultima nipote che si sposava. Ovvero, Beatrice Borromeo con Pierre di Monaco, figlio di Carolina. Teneva tanto a lei e alle sue sorelle, non tutte tecnicamente nipoti per via di complicate sovrapposizioni familiari. Ma era rimasta in Marta quell’aspirazione alla favola e andava fiera che nipoti e nipotastre avessero tutte sposato benissimo, Lavinia con John Elkann, dinastia Agnelli, Isabella con Ugo Brachetti Peretti ramo petroli, Matilde con il principe tedesco Antonius Von Furstenberg. Marta Marzotto era tante cose, era anticonformista e insieme terribilmente conformista, era unica. Ed è per questo che oggi tanti la piangono. Con lei se ne va quella che Guido Piovene definì «la ragazza imprecisabile», se ne va un modo irripetibile di cavalcare la vita e un mondo capace di tenere insieme cultura, lusso ed emozioni, di cui sentiremo la mancanza.
Corriere.it