Andata e ritorno dall’inferno. Là dove il morbo miete una vittima dopo l’altra e i cadaveri ormai non si contano più. Roberto Scaini, 41 anni, medico di San Clemente, per un mese esatto è rimasto in prima linea in Liberia, che assieme a Guinea e Sierra Leone è uno dei paesi africani maggiormente flagellati dal virus Ebola. Assieme ad altri 3mila volontari di Medici senza frontiere, Scaini ha combattuto contro l’avanzare inarrestabile della malattia, che in Africa ha già stroncato la vita di oltre 3400 persone. Con i propri occhi, il medico del riminese ha visto «migliaia di volti deformati dal dolore, le ambulanze cariche all’inverosimile di uomini e donne contagiate», ha udito «i lamenti e i gemiti risuonare nei corridoi degli ospedali, e i pianti dei bambini che invocavano il nostro aiuto». Un’esperienza che lo ha segnato nel profondo. Scaini, però, non ha affatto intenzione di arrendersi, ed è pronto a riprendere la sua battaglia contro ebola.
Dottor Scaini, quanto è durato il suo viaggio all’inferno?
«Sono tornato solo alcuni giorni fa da Monrovia, capitale della Liberia, dove ho prestato servizio presso uno dei centri di isolamento di Medici senza frontiere».
Com’è la situazione in Liberia?
«Ebola non ha lasciato scampo a questa terra così povera. Soprattutto all’inizio, il nostro lavoro è stato molto difficile. Il centro ospita circa 260 posti letto, ma ogni giorno ci sono decine di nuovi contagiati che bussano alla nostra porta. Ho visto ambulanze trasportare anche più di quattordici persone alla volta. Molte di loro morivano durante il tragitto. Tane volte abbiamo dovuto somministrare morfina per lenire il dolore tremendo degli ammalati. Ora la situazione è un po’ migliorata, grazie anche al lavoro dei volontari».
Il tasso di mortalità è molto elevato?
«Direi che siamo attorno al sessanta per cento. Questo significa che su dieci contagiati, almeno sei non riescono a sopravvivere. I primi tempi avevamo difficoltà anche solo a smaltire tutti i cadaveri. C’è anche qualcuno, però, che riesce a guarire: è questo che ci spinge ad andare avanti».
Non aveva paura di essere contagiato?
«No, perché durante il servizio indossavamo sempre delle tute isolanti, che riducono sensibilmente il rischio di infezione. Il problema è che in un paese dal clima torrido come la Liberia non è consentito indossare gli ‘scafandri’ molto a lungo: in un’ora si perdono anche due litri di liquidi corporei. E poi c’è la diffidenza da parte dei pazienti…»
Cosa intende?
«Soprattutto i bambini erano molto spaventati. Lei può immaginare: quelle tute ci facevano sembrare dei ‘marziani’… Così abbiamo escogitato alcuni espedienti. Ad esempio io ho disegnato uno smile sopra il casco. E’ importante creare un rapporto di fiducia con i pazienti».
Qual è l’immagine che le è rimasta più impressa?
«Il senso di smarrimento del popolo liberiano. Ebola ha fatto collassare il sistema sanitario, ovunque ci sono ospedali chiusi. La gente non sa a chi rivolgersi».
Cosa si può fare per combattere il flagello?
«Noi di ‘Medici senza frontiere’ ci stiamo adoperando, ma da soli non bastiamo. E’ come se un solo pompiere cercasse di domare un rogo gigantesco. Anche la comunità internazionale deve fare la sua parte. E poi ciascuno di noi può contribuire, ad esempio facendo una donazione sul nostro sito internet».
Pare che Ebola sia sbarcato anche in Europa. Teme un contagio?
«E’ un’ipotesi che escludo. Gli ospedali europei e americani sono attrezzati per affrontare i singoli casi ed evitare che il contagio si diffonda».
Il Resto del Carlino