«CHI pensa di strumentalizzare i suicidi mi fa schifo!». Una frustata, un tuono, uno schiaffo in faccia. È l’ora di pranzo e la platea della Leopolda, colpita allo stomaco, per un attimo incredula trattiene il fiato, poi esplode in un fragoroso applauso di consenso. Un boato che racconta un mondo.
Lo dicevano da giorni che Matteo Renzi fosse furioso per gli attacchi, a suo dire fuori misura, sul crac di Banca Etruria. Ma quel «mi fate schifo», rivolto senza nominarli ai Saviano e a chi è andato giù pesante contro il governo e, in particolare, contro Maria Elena Boschi dopo il suicidio del pensionato di Civitavecchia, è stata una bomba politica esplosa a disintegrare ogni ipotesi di diplomazia sulla questione. Altro che la «leggerezza calviniana» da lui rivendicata.
NO, su tutta la querelle bancaria al veleno, Renzi nel suo discorso di chiusura della Leopolda, non le ha mandate a dire. Con l’irruenza di chi si sente dalla parte della ragione; di chi non vede favoritismi («chi dice ciò insulta persone perbene»), non ha «scheletri negli armadi» e per questo dice sì alla commissione di inchiesta.
Un Renzi di pancia più che di governo, in quello stile che spesso è stato un suo punto di forza. La forza di uno che dichiara di avere fiducia nei giudici e non interviene per scelta quando c’è un’inchiesta in corso. «Anche mio padre – ha ricordato volutamente dal placo – ha ricevuto un avviso di garanzia 15 mesi fa. Da allora per due volte la Procura ha chiesto di archiviare, ma passerà il Natale ancora da indagato. Lui vorrebbe dare battaglia, io invece ho deciso di non dire una parola fino alla fine». Lo stile ostentato di un politico che, plasticamente, non vuol consentire «alle frustrazioni autoreferenziali di qualcuno» o «al titolo di un giornale di cambiarci la giornata». E questo, ovvero l’idea che si va avanti con ottimismo senza farsi condizionare dai «disfattisti e dai gufi», prima dello sbotto anti Saviani & C., è stato il
leit motiv del suo intervento di chiusura della Leopolda, fino a ieri molto più camomillesca delle precedenti. Che un conto è promettere l’assalto al cielo, altro lucidare gli ottoni di una stagione di governo.
COSÌ, mancando l’effetto passerella dell’Italia che vince (nessuna delle ospitate previste, dalla Pellegrini alla Cristoforetti, dalla Pennetta alla Vinci, si è materializzata), è toccato a lui provare a fare dell’happening fiorentino un Expo del renzismo trionfante. Ricordando i successi del governo, dalla legge elettorale agli 80 euro, dal jobs act alla cancellazione della tasse («lo so, lo avete già sentito, noi lo abbiamo fatto»), soprattutto ricordando come lo spirito della Leopolda abbia «rottamato il complottismo, cancellando dalla politica la parola rassegnazione». «E non crediate ai sondaggi – ha incalzato Renzi – oggi vinceremmo le elezioni al primo turno. E poi un leader casomai non guarda ai sondaggi, li cambia».
Un Renzi euforico di governo, che lo stesso ha però ha concluso dando un appuntamento di lotta ai suoi per l’ottobre 2016. «Allora – ha detto – voglio mille Leopolde, una in ogni città, per sostenere il voto sul referendum costituzionale, destinato a segnare la storia di questa Repubblica». La Leopolda come laboratorio di consenso elettorale più che le sezioni del Pd, «la cui bandiera non è qui ma tutti abbiano tatuata nel cuore». Tant’è.
Finisce fra applausi, lacrime e abbracci, mentre gli altoparlanti sparano le note di «Go big, go home», «fallo in grande o vai a casa». Esiste colonna sonora più adatta per il renzismo?