Vanta un rapporto privilegiato col Colle e tiene le redini dem. Quando tradì Letta.
Roma C’è sempre un prima e un dopo, nella felice parabola di Dario Franceschini, ex democristiano, ex popolare, ex capogruppo, ex segretario del Pd, tra breve ex ministro dei Beni culturali.
Non facciano confusione tutti questi «ex», però. Se il destino della legislatura, come quello di Matteo Renzi, sono appesi a un filo, questo filo si chiama Dario Franceschini.
È lui l’azionista di maggioranza, il detentore della golden share renziana. Così com’è lui l’autentico king-maker della candidatura (e quindi dell’elezione) del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. E se l’idea della «responsabilità» si farà strada dentro il Pd, grazie alla moral suasion esercitata da quest’ultimo, sarà anche in virtù di una suasion assai più material: se Franceschini «tradisse» il patto di fiducia che lo lega all’attuale segretario-premier, mettendosi di traverso, per Matteo sarebbe assai dura riuscire a forzare la mano sulle elezioni anticipate. E se ieri le voci prevalenti indicavano un rallentamento dell’irruenza fiorentina, significa che sono in corso iniezioni di bromuro in dosi cavalline. L’infermiera che opera su Renzi è inviata dal Quirinale, ma l’équipe medica si riunisce altrove. D’altronde il ragionamento franceschiniano ai pontieri renziani non fa una grinza: la scadenza della legislatura è alle porte, il tempo aiuterà a ricucire il partito con la sua gente, rischiare troppo non è mai stato nelle corde del Pd. Dulcis in fundo, i 400 deputati e i cento senatori pd sarebbero assai grati e contenti se potessero giungere alla maturazione del vitalizio (settembre 2017) senza essere strappati anzitempo dai seggi. Come dire? Andrebbero poi in giro a raccattar elettori con spirito assai più leggero.