Fukushima 3 anni dopo, viaggio nella centrale dei tre reattori fusi

La stanza dei bottoni ha i colori e il design da anni Settanta del secolo scorso: una selva di manopole di gusto retrò segnala che siamo nella centrale di controllo che gestiva i reattori numero uno e due della centrale atomica di Fukushima Daiichi. Un reattore fuso sta solo 40 metri più in la, dietro un massiccio muro e non distante da un altro reattore andato in “meltdown” (un terzo in fusione sta un po’ più in là).

Si fa una prova di oscuramento: le luci si spengono all’improvviso, tutto diventa tenebre. È una trovata della Tepco, la società di gestione, che in occasione del terzo anniversario dello tsunami ha consentito a un gruppetto di giornalisti stranieri di entrare nell’ex sancta sanctorum della centrale. Il messaggio per i mass media internazionali sembra essere: vedete, qui l’eroismo dei nostri lavoratori ha evitato una catastrofe peggiore. Non sono scappati e hanno cercato disperatamente di rimediare alla situazione nei drammatici giorni successivi. Nello stanzone senza finestre, la luce tornò solo 13 giorni dopo: le due settimane più drammatiche per il Giappone del dopoguerra. Accanto all’indicatore del livello dell’acqua ci sono alcuni numeri scarabocchiati a mano in quei giorni per memorizzare le cifre, evidentemente in una forte concitazione e in mancanza di meglio. Oggi il dosimetro segna solo 4,5 microsievert, ma in quei giorni le radiazioni erano alle stelle. Alla richiesta di incontrare qualcuna di questi eroi, il funzionario della Tepco risponde che non lavorano più alla centrale in quanto si sono beccati dosi di radiazioni tali da sconsigliare il loro rientro alla base.

Tre anni dopo, Fukushima Daiichi è un immenso cantiere. Si taglia la foresta per far spazio ai grandi contenitori di acqua contaminata che continua a essere generata al ritmo di 400 tonnellate al giorno. Akira Ono, responsabile della centrale (il suo predecessore, eroe del marzo 2011, è morto ancora giovane) dà la notizia che dal mese prossimo i grandi serbatoi da mille tonnellate saranno costruiti al ritmo di 40 al mese ( e non più 15) per tutto l’anno fiscale, aggiungendosi all’attuale capacità di stoccaggio di 436mila tonnellate. Il problema dell’acqua radioattiva è ancora quello più pressante. La Tepco e il governo stanno cercando di convincere l’opinione pubblica (interna e internazionale) e i riottosi pescatori della zona ad accettare l’idea del rilascio controllato nell’oceano di ampie quantita di acqua dopo un trattamento che elimini la maggior parte dei materiali radioattivi (ma non il trizio).

È una idea che trova consenziente Dale Klein, ex responsabile dell’Autorità di regolamentazione nucleare Usa e advisor della Tepco, che si è fatto intervistare alla centrale. «Continuare a stoccare e basta non è un piano sostenibile – afferma – Bisogna pazientemente convincere il pubblico all’idea del rilascio in mare secondo standard internazionali». Più in generale, secondo Klein la Tepco ha fatto progressi ma non ha ancora delineato un piano organico complessivo per il decommissionamento della centrale. In effetti, lo stesso Ono ammette che solo ora «la prima fase post-tsunami sta per terminare» e quindi «si può pensare nei dettagli alle fasi di decommissionamento», per ora iniziate solo al reattore numero 4 (dove è in corso la delicata operazione di trasferimento in una vasca comune di stoccaggio delle barre di combustibile spento: una operazione che va ancora completata per tre quarti e durerà fino alla fine di quest’anno).

La sensazione è che si stia procedendo ancora per sperimentazioni. Ad esempio, la costruzione di un muro sotterraneo “congelato” a monte e a valle della centrale – sia per ridurre la contaminazione dell’acqua sotterranea sia per evitare che finisca in mare – non potrà iniziare davvero prima di vari mesi: stanno per cominciare nei prossimi giorni i primi test, che saranno replicati prima di dare l’ok definitivo a un progetto mai tentato prima su questa scala, che costerà dollari a miliardi. Un’altra sensazione relativamente inaspettata – rafforzata da una visita anche alla “Torus Room” all’Unità numero 5, dove sta la “suppression chamber” – è che una centrale nucleare non appare molto diversa da altri impianti industriali o centrali per l’energia: non ambienti asettici e dall’apparenza ipertecnologica, ma macchinari sporchi, camminamenti tra tubi, grovigli di cavi e cosi’ via.

La buona notizia è che i livelli di radioattività sono diminuiti nell’area, tanto che si può arrivare all’ingresso della centrale senza protezioni. Appena passati vari check point, però, bisogna bardarsi completamente con tute di tyvek, casco, tripli guanti, doppie calze, maschera respiratrice. Tutti gli operai lavorano ancora così. In un punto qualsiasi, il dosimetro ha segnato 80 microsievert l’ora. La zona “proibita” intorno alla centrale (dove l’accesso e’ consentito solo agli autorizzati) si è ristretta da 30 a 5 chilometri, ma c’è poi una fascia di rispetto dove gli abitanti possono tornare alle loro case di giorno ma non dormirci. Di recente il governo ha cambiato orientamento e non pensa più necessariamente che tutti debbano poter tornare dove abitavano prima. In totale, tra tsunami e crisi nucleare, sono 267mila i giapponesi ancora evacuati, di cui oltre 100mila residenti in prefabbricati provvisori. L’11 marzo si tengono cerimonie di commemorazione in tutto il Paese. Ma l’ultima sensazione e’ che fuori dal Giappone settentrionale ci sia voglia di dimenticare Fukushima e lo tsunami. Non a caso il premier Shinzo Abe sabato ha visitato Fukushima e oggi ha sottolineato in Parlamento che il governo andrà avanti con il piano per riattivare impianti nucleari. Che oggi sono tutti spenti senza che in Giappone ci siano black-out, ma al prezzo di un aggravamento del disavanzo della bilancia commerciale tale da mandare in rosso anche quella dei pagamenti.

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