GIUDIZIARIA. San Marino. Caso Bruno Benito Pierro, quindici anni di processo, dai primi conti in banca alla decisione Saldarelli che nega la restituzione dei 2,7 milioni

È una vicenda che parte dalla metà degli anni Duemila, attraversa una condanna di primo grado, la morte dell’imputato, un appello chiuso con l’estinzione del reato e la riapertura del fascicolo solo per decidere sulla confisca. Oggi il Commissario della legge Saldarelli ha chiuso, almeno in primo grado, il capitolo più recente del “caso Pierro”, respingendo la richiesta di restituzione delle somme sequestrate e confermando che il denaro non tornerà agli eredi.

La storia giudiziaria di Bruno Benito Pierro, consulente e professionista romano, inizia a San Marino con il decreto di rinvio a giudizio firmato dal Commissario della legge Simon Luca Morsiani. Nel provvedimento, Pierro e Pietro Romano Orlando vengono rinviati a giudizio per il reato di riciclaggio, ai sensi degli artt. 50, 73 e 199 bis del Codice penale sammarinese.

Commissario della Legge Saldarelli

Secondo l’accusa, i due, “in concorso tra loro, in esecuzione del medesimo programma criminoso”, avrebbero posto in essere operazioni di sostituzione e trasferimento su una somma complessiva di circa 2,7 milioni di euro, ritenuta di certa e presunta provenienza illecita, collegata al delitto di usura. Il capo di imputazione elenca nel dettaglio le movimentazioni: apertura di un conto cointestato presso Banca Commerciale Sammarinese con accredito di 2 milioni provenienti dalla società Minurex Nassau Bahamas, risultata non iscritta nei registri ufficiali; giustificazione ritenuta falsa agli operatori bancari; prelievi in contanti per oltre 1 milione; trasferimenti su conti intestati al solo Pierro presso BCS e IBS; versamento in contanti di 700.000 euro in due tranche da 350.000; ulteriori operazioni per 117.000 euro; investimento in una partecipazione societaria tramite fiduciaria Emme-Fin e in titoli mobiliari per circa 2,5 milioni. Il tutto, “commesso in San Marino sino al 3 giugno 2011”.

Il procedimento approda al dibattimento davanti al giudice Gilberto Felici. L’8 marzo 2017 arriva la sentenza di primo grado: Orlando viene assolto “perché non consta abbastanza della colpevolezza”, mentre Pierro viene condannato a 4 anni e 4 mesi di prigionia, 3.000 euro di multa, un anno e due mesi di interdizione dai pubblici uffici e dai diritti politici. Il giudice dispone inoltre la confisca della somma già sequestrata, pari a 2.536.789 euro più interessi, e una ulteriore confisca per equivalente di circa 280.000 euro.

La Procura del Fisco aveva chiesto una condanna lievemente più alta, a 4 anni e 6 mesi. La difesa di Pierro, con gli avvocati Rossano Fabbri e Rodolfo Di Martino, contesta la decisione, sostenendo l’assenza di un chiaro reato presupposto del riciclaggio e annunciando appello. Sullo sfondo, già allora, il tema che diventerà centrale negli anni successivi: si può condannare per riciclaggio quando il “delitto a monte” resta indeterminato?

Prima che il giudice di appello potesse entrare nel merito, però, interviene un fatto destinato a cambiare l’assetto del procedimento: Pierro muore. In un sistema tradizionale, la morte dell’imputato chiude il processo. A San Marino, invece, nel frattempo è intervenuta la Legge n. 146 del 19 settembre 2014, che ha modificato il quadro in materia di sequestro e confisca. La norma, poi confluita nell’art. 147 del Codice penale e nell’art. 58 ter del Codice di procedura penale, prevede che, in caso di estinzione del reato, il procedimento possa proseguire “al solo fine di accertare le condizioni per disporre la confisca”, e che “in caso di morte del prevenuto” si proceda nei confronti degli eredi o dei legatari.

Il Giudice delle Appellazioni, Francesco Caprioli, dichiara dunque il reato estinto per decesso dell’imputato, ma conferma il sequestro delle somme ritenute frutto di attività illecita e trasmette gli atti al Commissario della legge perché si proceda nei confronti degli eredi di Pierro, limitatamente al profilo della confisca.

Pierro muore formalmente incensurato, ma il denaro resta congelato.

Si apre così un nuovo troncone processuale, non più contro l’imputato deceduto, ma nei confronti del suo erede, l’associazione “Catena Mangi”, chiamata a confrontarsi con la prospettiva che lo Stato acquisisca definitivamente i 2,7 milioni.

Davanti al Commissario Saldarelli il fascicolo entra nel vivo nel 2025. La Procura del Fisco ribadisce la linea già tracciata in primo grado: i 2 milioni provenienti dalla società delle Bahamas sono di originaria opacità, non verificabile; la causale riferita a una fondazione ebraica e a compensi per professionisti non ha trovato riscontro investigativo;

i 700.000 euro in contanti, pur avvolti in fascette bancarie Carife, non sarebbero adeguatamente giustificati, soprattutto perché, è l’argomento del Procuratore del fisco, se davvero provenissero da conti italiani, la tracciabilità dei prelievi avrebbe potuto essere documentata senza difficoltà. Il fatto che quella somma venga poi “confusa” con i 2 milioni sul conto sammarinese, in un’unica massa patrimoniale, è per la Procura un ulteriore indice di un comportamento volto a schermare la provenienza dei fondi.

Su queste basi, il Procuratore del Fisco chiede di confermare la confisca delle somme in sequestro, con gli interessi maturati, e di non accogliere la richiesta di restituzione formulata dall’erede.

La difesa, attraverso gli avvocati Alberto Spagni Reffi ed Emanuele Nicolini, porta invece un impianto opposto. Da un lato insiste nel sottolineare la posizione personale di Pierro: quarant’anni di attività professionale e imprenditoriale, redditi dichiarati importanti, patrimonio immobiliare diretto e tramite società, rapporti consolidati con istituti di credito che lo consideravano cliente “abbiente”, linee di credito significative e la presenza di conti e titoli in Italia compatibili con un trasferimento di 700.000 euro a San Marino. Per quella parte della provvista, sostengono i legali, vi sarebbe “prova per tabulas” della liceità dell’origine, confermata dagli accertamenti e dalle testimonianze bancarie.

Per i 2 milioni provenienti dall’estero, la difesa richiama il memoriale di Pierro, che lega la somma a operazioni immobiliari internazionali del gruppo Piperno, documentate da atti di contenziosi civili italiani degli anni ’90, e contesta al giudice di primo grado di non aver adeguatamente valutato questo materiale. Ma il cuore dell’argomentazione è tecnico-giuridico: non sarebbe mai stato individuato in concreto il reato presupposto del riciclaggio; l’imputazione parlava genericamente di “provento di reato” collegato all’usura, senza precisare dove, quando e da chi sarebbe stato commesso l’illecito a monte. Una genericità che, alla luce della giurisprudenza successiva, renderebbe impossibile mantenere una confisca fondata su un reato mai definito nei suoi elementi essenziali.

A questo si aggiunge il profilo intertemporale: secondo la difesa, la disciplina della confisca autonoma, proseguibile anche dopo l’estinzione del reato, non poteva essere applicata retroattivamente a fatti che, nelle loro ultime movimentazioni, risalgono al febbraio 2010. E, sul piano convenzionale, sedici anni di sequestro senza una decisione definitiva sulla proprietà delle somme sarebbero incompatibili con la tutela del diritto di proprietà e con il requisito di ragionevole durata del procedimento sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

Su queste basi, gli avvocati chiedono in via principale la restituzione integrale dei beni sequestrati all’associazione erede, con interessi e rendimenti; in subordine, la restituzione almeno dei 700.000 euro ritenuti leciti, lasciando al massimo in gioco l’eventuale quota ritenuta illecita.

Oggi il Commissario della legge Saldarelli ha sciolto il nodo in senso sfavorevole alla difesa.

Il denaro resterà quindi allo Stato, salvo futuri sviluppi nei gradi successivi di giudizio. La difesa ha già lasciato intendere che valuterà l’impugnazione in appello.

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