Un attacco durato tre giorni ad aprile ha provocato la morte di almeno 1.500 civili nel campo profughi di Zamzam, il più grande del Sudan, situato nel Darfur settentrionale. La drammatica ricostruzione emerge da un’inchiesta del Guardian, che ha raccolto testimonianze su esecuzioni di massa, rapimenti e violenze perpetrate dalle Rapid Support Forces (RSF), un gruppo paramilitare di etnia araba che ha preso il controllo dell’area.
Le RSF sono in conflitto con l’esercito regolare sudanese dallo scoppio della guerra civile nell’aprile 2023, conflitto che ha causato milioni di sfollati e una delle emergenze alimentari più gravi al mondo. La Corte penale internazionale ha riconosciuto l’esistenza di crimini di guerra e crimini contro l’umanità nel Darfur, con accuse rivolte sia alle RSF sia all’esercito sudanese, responsabile di bombardamenti indiscriminati.
I primi conteggi indicavano circa 400 morti, ma una commissione d’inchiesta ha raccolto oltre 1.500 nomi di vittime, in gran parte civili non arabi, uccise poche ore prima dell’apertura di un tavolo di pace a Londra. Decine di donne risultano ancora disperse dopo essere state rapite durante l’attacco. Il lavoro di verifica è complicato dal fatto che il campo è ora sotto il controllo delle RSF, che impediscono un’indagine completa: molti corpi sono rimasti nelle abitazioni, nei campi e lungo le strade.
Fonti con esperienza decennale nel Darfur stimano che il numero reale delle vittime possa superare le 2.000. Testimoni sopravvissuti raccontano di aver perso familiari e di aver vissuto atrocità senza precedenti. Medici Senza Frontiere ha denunciato che l’attacco ha colpito uno dei gruppi più vulnerabili al mondo e che i sopravvissuti hanno dovuto affrontare saccheggi, violenze sessuali e condizioni di vita disperate nei campi di transito.
Questa tragedia rappresenta uno dei capitoli più oscuri della guerra civile in Sudan e pone un urgente appello alla comunità internazionale per un intervento di protezione e sostegno alle popolazioni colpite.