«Presidente Obama, te l’ho detto già una volta, o arresti Fethullah Gülen o lo rimandi in Turchia. Non mi hai ascoltato. Ora, dopo il tentativo di golpe, mi rivolgo nuovamente a te: concedi la sua estradizione, se vuoi che rimaniamo partner fai quello che è necessario».
La sua storia politica è complessa e articolata. Fino a quando la Turchia è rimasta uno stato laico, Gülen era all’opposizione, chiedendo maggiore rispetto per la religione, tanto che nel 1999, due anni dopo l’ultimo intervento dei militari nella politica, ritenne prudente emigrare negli Stati Uniti. Quando poi, tre anni dopo, il potere fu preso da Erdogan e dal suo «partito islamico moderato» AKP, decise di allearsi con lui nel tentativo di rimodellare la Turchia secondo i suoi principi. Per diversi anni, la vasta rete di «gulenisti» presenti nella magistratura, nella polizia, nei media e nelle Forze armate collaborò con l’AKP per affermare un islamismo soft, in armonia con lo statuto di Hizmet. Ma quando Erdogan cominciò a purgare le istituzioni dei suoi nemici e a spingere troppo sul pedale islamista, non solo l’intesa si ruppe, ma il Sultano cominciò a nutrire nei confronti di Gülen un odio crescente. Nel 2013, lo accusò di essere il burattinaio del megascandalo per corruzione che aveva coinvolto anche alcuni suoi familiari e per ritorsione arrestò, cacciò o trasferì centinaia di magistrati e poliziotti a lui legati e ne chiese per la prima volta l’estradizione agli USA come capo di una fantomatica «organizzazione terrorista gulenista». Da allora, i gulenisti di tutti i settori (che secondo stime non verificate ammonterebbero a circa il 10 per cento della popolazione) sono stati oggetto di una sistematica persecuzione: i giornali che facevano capo al movimento, a cominciare dal diffusissimo Zaman, sono stati chiusi o costretti a cambiare linea, la sua TV interdetta, molte scuole hanno dovuto chiudere i battenti. Il movimento fu ufficialmente definito «una quinta colonna al servizio di interessi stranieri». L’accusa di avere architettato il fallito golpe di venerdì notte peraltro subito sdegnosamente respinta dallo stesso Gülen è perciò solo la logica conclusione di una guerra ormai senza quartiere. La vicenda del golpe (che, secondo dichiarazioni rilasciate in un’intervista, il predicatore in esilio ritiene possa essere stato organizzato dallo stesso Erdogan per rafforzare il proprio potere) ha ora trasformato quella che era una faida interna turca in una crisi internazionale.
Per quanto l’amministrazione Obama abbia preso subito posizione contro il tentativo di colpo di Stato, Ankara ha tolto l’elettricità per 24 ore alla base di Incirlik bloccandone l’attività. Non c’è perciò da stupirsi che i segretario di Stato Kerry abbia accolto la nuova richiesta di estradizione di Gülen, peraltro non ancora avanzata attraverso i regolamentari canali giudiziari, con una certa freddezza. In realtà, che gli USA cedano all’ennesimo ricatto di Erdogan quando Gülen assume sempre più il ruolo di rifugiato politico è inconcepibile, sarebbe contrario a tutti i loro principi. Rimane da vedere se l’organizzazione di Gülen, che nonostante le nuove purghe in corso in queste ore (si parla di 6.000 arresti e altri 6.000 in preparazione) sarà in grado di continuare la sua opposizione al Sultano, che di tutte rimane tutto sommato la più efficace.
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