I sette peccati mortali di una sinistra tragicomica

Che batosta, ragazzi! E sì che non più tardi di qualche ora fa erano tutti in brodo di giuggiole per gli eroi di Sanremo. Prendete Debora Serracchiani. Attaccata ai social scriveva: “Un Festival di successo che racconta in modo intelligente e con le forme e i linguaggi talvolta provocatori dell’arte, un’Italia più avanti di chi la governa. Complimenti a tutti coloro che hanno lavorato per mesi a un evento così complesso che cresce anno dopo anno”. Poi è bastata una domenica di elezioni a svelare a questi sognatori la realtà. Il risveglio è stato decisamente doloroso, anche se nessuno di loro si degnerà di ammetterlo. Come non ammetteranno mai che la tranvata di ieri parte da lontano, è un tutt’uno con la sconfitta dello scorso 25 settembre ed è figlia di sette peccati mortali che da anni la sinistra reitera senza che nessuno abbia il coraggio di fare mea culpa. Perché la colpa è sempre di qualcun altro.

Il doppio forno

Guardare ai moderati o inseguire il populismo di Giuseppe Conte? Chi può saperlo! Dipende da cosa conviene al momento. È sempre stato così. Non a caso mentre in Lombardia i dem sono andati a braccetto col Movimento 5 Stelle tentando di ripararsi dal fuoco “amico” del Terzo Polo a guida Letizia Moratti, nel Lazio sono andati a braccetto col Terzo Polo cercando di evitare gli sgambetti del Movimento 5 Stelle a guida Donatella Bianchi. Una vera e propria sit com degna di questa sinistra disorientata e in cerca di un personaggio da interpretare. Anche perché a farsi male è tutta l’Armata Brancaleone. Se infatti i dem si leccano le ferite, Conte e Carlo Calenda non stanno certo meglio. La batosta è generalizzata.

La campagna elettorale

Alleanze a parte, a guardar indietro tutta la campagna elettorale è stata a dir poco assurda. Mentre infatti i due candidati, Pierfrancesco Majorino e Alessio D’Amato, arrancavano e sprofondavano di giorno in giorno nei sondaggi, il Partito democratico si buttava anima e corpo a difendere il terrorista Alfredo Cospito. Il tutto condito da una campagna per le primarie spassosissima. Con Stefano Bonaccini ed Elly Schlein che riesumano lo ius soli, i porti aperti, la legalizzazione delle droghe leggere, la tassa di successione e così via. Tutto l’armamentario della sinistra nostrana, insomma. Quello, per intenderci, che le ha fatto perdere il contatto con il Paese reale. Dopo tutto non è stata una loro elettrice a chiedersi “Dov’è finita la sinistra?”.

L’exploit di Sanremo

La settimana prima del voto, al Festival di Sanremo, la sinistra ha sfoderato l’artiglieria pesante: Fedez che strappa la fotografia del viceministro Galeazzo Bignami, attacca il ministro Eugenia Roccella e chiede alla Meloni di legalizzare la cannabis; Roberto Benigni che sale in cattedra e fa una lezione di educazione civica; la pallavolista Paola Egonu che dà agli italiani dei razzisti e Chiara Ferragni che accusa la società italiana di sessismo; Rosa Chemical che, in mancanza di attivisti Lgbt sul palco, sventola un vibratore e mima amplessi omosex in platea. Insomma, un tour de force progressista pagato da contribuenti. E dopo la sbornia sanremese?

La Ztl della sinistra

Dopo la sbornia sanremese, un devastante hang over. Le elezioni regionali sono finite con Attilio Fontana in Lombardia al 54,7% e Francesco Rocca nel Lazio al 53,88%, entrambi a venti punti di distacco dal candidato della sinistra. Una doccia gelata. Tanto ghiacciata da far male come uno schiaffo dato a mano aperta. Nemmeno i sondaggisti lo avevano immaginato tanto doloroso. Ma il mondo è degli ottimisti come il sindaco Beppe Sala: “Abbiamo vinto in tutta Milano”. E Majorino con lui: “È una buona base da cui partire”. Ma più che una “base da cui partire” il capoluogo lombardo appare come una ztl (costosissima) dentro la quale i dem si sono confinati.

Riconferme e bocciature

La lettura più semplice del voto di ieri è grossomodo la seguente: il (buon) governo della Lombardia viene riconfermato, il (cattivo) governo del Lazio viene invece trombato. E sì che a leggere certa stampa negli ultimi cinque anni il risultato di questa tornata elettorale avrebbe dovuto essere l’esatto opposto. Ricordate cosa scrivevano di Fontana? Quanto fango! E ricordate come portavano in palmo di mano Nicola Zingaretti e la sua squadra? E invece…

Narrazioni sinistre

A proposito di narrazioni distorte… il voto di ieri ci ha fatto scoprire che gli elettori lombardi non ce l’avevano affatto con Fontana. E dire che la campagna della stampa progressista era stata così martellante. Prendete la narrazione sulla gestione della pandemia. Il governatore ne ha subite di ogni: la gogna mediatica per la mascherina messa male, il calvario giudiziario per la fornitura dei camici (finito nel classico “il fatto non sussiste”), le accuse per la mancata zona rossa e così via. E poi? Poi viene fuori che nei Comuni, su cui la prima ondata di Covid si è abbattuta con maggiore ferocia, il leghista è uscito dalle urne addirittura meglio che nel 2018.

Il day after

Presa la scoppola finalmente è tempo di mea culpa? Macché. State un po’ a sentire Enrico Letta: “Il Pd resta il primo partito di opposizione”. Clap, clap! E Calenda: “Gli elettori non hanno sempre ragione”. Ah ecco… se non viene votato, la colpa non è sua ma di chi non lo vota. Magistrale! Majorino punta sul classico: “Non avere un leader non ha aiutato”. Non che, quando aveva Letta alla guida, il Pd abbia fatto di meglio. Ma guai a dirlo! Anche sui giornaloni nessun mea culpa. Il Fatto Quotidiano di Marco Travaglio: “Meloni vince per abbandono di lettori”. Di più, di più! Il Domani: “La democrazia bloccata nel Paese senza più elettori”. La Stampa: “Se vince l’astensione, perde la democrazia”. E, infine, Repubblica: “Urne vuote, vince Meloni”. Per carità non è mai bello avere un’affluenza bassa, ma possiamo dire che i candidati del centrodestra erano migliori di quelli della sinistra? Oppure anche questo è un peccato mortale?


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