La legge dei numeri condanna il Pd. Enrico Letta e la sua truppa parlamentare siederanno al tavolo verde nella partita per il Quirinale. Ma non saranno nel posto di capotavola a dare le carte. Ma in seconda fila. «Troppo piccolo il Pd», dice, con una coda velenosa, Romano Prodi in un’intervista a La Stampa: «So contare, quindi seppure questo Pd non fosse più quello dei 101, è troppo piccolo per dare le carte per il Quirinale». Prodi, che spera ancora di essere il candidato di bandiera della sinistra, rifila la frecciatina agli amici democratici. Ma i numeri sono chiari: 94 deputati, 38 senatori a cui vanno aggiunti una decina di delegati regionali. Poco più di 140 grandi elettori su un totale di 1008: un pacchetto che spinge Letta nella griglia delle seconde file nelle trattative per il Colle.
Il ministro degli Esteri Luigi di Maio, da leader non ufficiale del Movimento, ne controlla di più tra Camera e Senato. Per la prima volta, negli ultimi 15 anni, il Pd arriva al voto per il Capo dello Stato senza la spinta di essere il partito di maggioranza relativa. Cosa farne dei 140 grandi elettori? Si racconta che Goffredo Bettini, non più tra i consiglieri più ascoltati ai piani alti del Nazareno, abbia messo in guardia Letta: «Inutile cercare un asse con Renzi su un presidente vicino al Pd». Nel suo ragionamento Bettini sostiene che i dem abbiano solo tre opzioni: «Draghi, Mattarella bis e l’intesa con Forza Italia». Altre strade – secondo il Bettini pensiero porterebbero il Pd a un ruolo marginale, a rimorchio di altri, nell’elezione del capo dello Stato.
«Il primo passaggio per convincere Renzi – raccontano fonti del Nazareno a spostare i suoi voti su un candidato dem è già naufragato». Il rottamatore ha bruciato l’opzione Gentiloni. I sospetti in casa Pd è che sia stato proprio Renzi a spifferare alla stampa la notizia della cena a Bruxelles. Primo passo falso che conferma il pericolo evocato da Bettini.
Fuori Gentiloni. Restano le tre opzioni, suggerite dall’ex braccio destro di Veltroni: il bis di Mattarella non sembra più percorribile, dopo l’ennesimo no del presidente della Repubblica all’ipotesi di un secondo settennato. Il trasloco di Draghi da Palazzo Chigi al Colle resta dunque la strada maestra. Una carta che Letta gioca per forzare la mano sul voto anticipato in primavera. Ma sull’operazione Draghi le variabili sono tante e imprevedibili. La prima: il gruppone di parlamentari vicini a Di Maio potrebbe sabotare l’operazione per una ragione tanto banale, quanto scontata: con il voto anticipato perderebbero la poltrona. Conte ha una scarsa presa su deputati e senatori grillini.
E poi anche Letta non è così sicuro di controllare tutti i parlamentari dem. Soprattutto tra gli ex renziani rimasti nel Pd, in odore di epurazione, molti parlamentari farebbero carte false per assicurarsi un altro anno di stipendio e poltrona. Un altro padre nobile del Pd, Massimo D’Alema (risentito per non essere nella rosa dei candidati di bandiera), prova a demolire i piani del segretario Pd: «Penso che sarebbe una scelta importante se dopo settant’anni di storia repubblicana il Parlamento si mettesse in grado di eleggere una donna al ruolo più alto di garante della democrazia». Tradotto: stop a Draghi.
E se Letta si schianta sul Colle? Allontana il voto, aprendo la strada a un congresso tra la primavera e l’autunno. Non resta che la terza ipotesi: intesa con Fi e centrodestra su nome condiviso. I dem ci provano: fanno trapelare il gradimento per Giuliano Amato. Ma stavolta i numeri li condannano: il posto al «banchetto Quirinale» c’è. Ma non a capotavola. Il Pd si deve accomodare di lato.
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