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(di Lara Sirignano)
I problemi giudiziari di Matteo Messina Denaro cominciano nel 1989, quando figlio dell’allora più celebre padre, don Ciccio, boss di Castelvetrano, incassa la prima denuncia per associazione mafiosa. Già da allora conosciuto in ambienti investigativi, non gode ancora di fama pubblica, ma ha preso in mano il
mandamento su delega del padre-padrino ammalato che lo avvia alla successione.
Enfant prodige del crimine, destinato per legami di sangue ad assumere un ruolo in Cosa nostra, ha sempre amato sparare. A 14 anni sa maneggiare le armi, a 18 commette il primo omicidio. “Con le persone che ho ammazzato io, potrei fare un cimitero”, confida a un amico.
In linea con la strategia stragista dei corleonesi, dei quali, come suo padre, resterà sempre fedele alleato, è coinvolto nelle stragi del ’92 in cui persero la vita
i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La Procura di Caltanissetta, dopo aver le indagini sugli attentati, a ottobre del 2020 lo ha fatto condannare all’ergastolo per i due attentati. Secondo gli investigatori sarebbe stato presente al summit voluto da Riina, nell’ottobre del 1991, in cui fu deciso il piano di morte che aveva come obiettivi i due magistrati. I pentiti raccontano, poi, che faceva parte del commando che avrebbe dovuto eliminare Falcone a Roma, tanto da aver preso parte ai pedinamenti e ai sopralluoghi organizzati per l’attentato. Da Palermo, però, arrivò lo stop di Riina. E Falcone venne ucciso qualche mese dopo a Capaci.
Un ruolo importante “Diabolik” lo ha avuto anche nelle stragi del 1993 a Roma, Firenze e Milano. Imputato e processato è stato condannato all’ergastolo per le bombe nel Continente (quelle fatte esplodere cioè fuori dalla Sicilia).
La sua latitanza comincia a giugno del 1993. In una lettera inquietante scritta alla fidanzata dell’epoca, Angela, preannuncia l’inizio della vita da Primula Rossa. “Sentirai parlare di me – le scrive facendo intendere di essere a conoscenza che di lì a poco il suo nome sarebbe stato associato a gravi fatti di sangue – mi dipingeranno come un diavolo, ma sono tutte falsità”.
Il padrino trapanese nella sua carriera criminale ha collezionato decine di ergastoli. Oltre a quelli per le bombe del Continente, ha avuto il carcere a vita per il sequestro e l’omicidio del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito rapito da un commando di Cosa nostra, strangolato e sciolto nell’acido nel 1996 dopo quasi due anni di prigionia. Riconosciuto colpevole di associazione mafiosa a partire dal 1989, l’ultima condanna per mafia è a 30 anni di reclusione in continuazione con le precedenti.
Il tribunale di Marsala per la prima volta gli ha riconosciuto la qualifica di capo nel 2012. E una pioggia di ergastoli il boss li ha avuti anche nei processi Omega e Arca che hanno fatto luce su una serie di omicidi di mafia commessi tra Alcamo, Marsala e Castellammare tra il 1989 e il 1992.
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