
Non ha mai dato l’impressione di temere una sconfitta. Non si è nemmeno preoccupato troppo di fare “campagna elettorale” nel senso classico del termine, visto che il miglior modo di conquistare i veneti è quello di essere pratici e di governare. Ma oggi Luca Zaia può tirare una linea dritta su queste elezioni e guardare ai prossimi cinque anni di governo regionale, con un occhio a quello che succede a Roma. E ai vertici della Lega.
Alla fine pare sia andata secondo le aspettative. Zaia si conferma alla guida del Veneto. E lo fa con percentuali bulgare, numeri da plebiscito putiniano. Gli exit poll danno il Doge avanti con il 72-76% dei consensi mentre il candidato di centrosinistra, Arturo Lorenzoni, fa la figura della comparsa (16-20%). Per gli altri due candidati governatore, Enrico Cappelletti (3-5%) e Antonio Guadagnini (0-0,2%) poco più di una comparsa. Anche l’affluenza (circa 59%) racconta di una partita mai davvero in bilico.
Trovare i motivi di una vittoria così schiacciante non è troppo difficile. Il Veneto è un feudo leghista, e Zaia della Lega è uno dei pilastri. Ma certo al Doge va dato atto di aver governato bene, soprattutto in tempo di coronavirus. Lui ha imposto il tamponamento di massa a Vo’ Euganeo. Lui ha chiuso l’intero ospedale di Schiavonia, isolando pazienti e medici all’interno. Lui ha chiesto prima misure restrittive, poi le mascherine, infine i test anti-Covid a tutti. Nessuno credeva ai rischi di lasciare liberi in circolazione gli asintomatici, Zaia invece sì. Si è fidato dei suoi esperti, ne ha placato finché possibile le aspirazioni e le liti. Quando Crisanti gli ha chiesto qualche migliaia di euro per ripetere il tampone a Vo’ ha trovato i fondi senza fiatare. Quando c’è stato bisogno di comprare una macchina per effettuare i test più rapidamente non si è tirato indietro. Ha dimostrato di saper risolvere i problemi, anche quando il fine chiedeva di infischiarsene delle indicazioni dell’Oms, del Cts e spesso anche del governo. Una mossa azzardata, ma che alla fine gli ha ragione.
Ma c’è anche altro. Quando Zaia si candidò cinque anni fa puntò su ospedali, infrastrutture e tasse. Oggi l’addizionale Irpef è a zero e la sanità è ai vertici nazionali. E il suo motto (“l’impegno continua”) spiega molto del pragmatismo con cui intende governare il prossimo lustro. Il Doge, poi, si è speso per l’autonomia del Veneto come pochi altri prima. A dire il vero è arrivato così vicino all’obiettivo che se l’estate scorsa non ci fosse stato un cambio di governo, forse avrebbe strappato anche questo risultato.
Di certo oggi la sua posizione politica, non solo locale, si è consolidata fortemente. Zaia sta alla Lega come Bonaccini al Pd. E se il secondo sembra insinuare la leadership di Zingaretti, qualcuno pensa che il leghista possa fare altrettanto con Salvini. Certo: i nostalgici della vecchia Lega a trazione nordista lo vedono come un candidato naturale per la guida del partito. E forse qualcuno lo preferirebbe anche a Salvini, la cui discesa al Sud sembra essersi un po’ arenata. Ma il Carroccio è diverso dal Partito Democratico: le scalate alla leadership sono più complesse e meno liquide. E poi non è detto che Zaia voglia intestarsi una battaglia interna quando si prospettano cinque anni di governo in Veneto senza praticamente opposizioni. Molto però diranno le percentuali delle liste dei partiti. Se quella di Zaia dovesse superare la lista del Carroccio, allora immediati scatteranno i retroscena per mettere in contrapposizione tra la Lega “salviniana” a trazione nazionale e la Liga veneta che sogna il Doge alla guida del partito. Forse Zaia non passerebbe subito all’incasso. Ma il suo peso dalle parti di via Bellerio inizierebbe a farsi sentire. E prima o poi qualcuno potrebbe indicarlo come il candidato premier ideale. Al posto di Salvini.
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