
Rimuovendo una mina dal suo percorso, il governo giallorosso rischia di essersi incamminato su un sentiero ben più impervio. Aver trovato una quadra sulla risoluzione di maggioranza riguardante la riforma del Mes ha, sul breve periodo, ridato un simulacro di unità all’esecutivo. Luigi Di Maio potrà en passant divenire il primo ministro degli Esteri pentastellato ad aver firmato la riforma di un meccanismo che nel programma elettorale che ha portato il Movimento al 32% la sua formazione si riprometteva di abolire senza perdere la faccia di fronte ai suoi commilitoni, molti dei quali sono terrorizzati dall’ipotesi del ritorno alle urne. Il Partito Democratico e Italia Viva potranno al contempo ribadire l’intransigente linea europeista del governo dimenticandosi delle batoste incassate in Europa negli ultimi tempi da Giuseppe Conte, Roberto Gualtieri e gli altri membri dell’esecutivo.
Ma sul medio-lungo periodo la vera partita è un’altra. Stiamo parlando della corsa verso il Recovery Fund, vero e proprio scenario decisivo per l’esecutivo a trazione M5S-Pd, in cui verranno al pettine tutti i nodi accumulatisi in questi mesi di grande conflittualità che hanno reso il governo un campo di battaglia. La gestione problematica da parte di Giuseppe Conte del dossier, dietro la quale c’è chi intravede una “manina” tedesca nello spingere il premier a centralizzare su Palazzo Chigi a danno dei partiti la struttura di coordinamento, ha esacerbato le tensioni politiche tra i membri della maggioranza e fatto venire meno l’unico fattore di unità che poteva consentire all’esecutivo una navigazione più serena negli anni a venire: la divisione della torta europea.
Se la manovra finanziaria scatena ogni anno tra i partiti un clima da assalto alla diligenza, quella che si prospetta per il Piano nazionale di rilancio e resilienza è un’aria da “grande rapina al treno”. Il treno, metaforicamente, sono i miliardi europei, del cui arrivo in Italia è passata l’idea distorta che si tratterà di un viaggio di piacere e di una vera e propria cascata di miliardi comunitari. Dimenticando che parte di essa sarà in prestito e l’altra sarà condizionata a seri cronoprogrammi sui progetti e a condizionalità chieste come contropartita.
Ebbene, caduta la foglia di fico del dibattito sulla riforma del Mes l’esecutivo dovrà sciogliere i nodi su questo tema. Ove la grande opposizione è quella di Italia Viva e Matteo Renzi allo schema Conte, basato sulla creazione di una struttura commissariale con sei supermanager capaci di governare il passaggio dei progetti alla fase operativa. E tacciato di possibili vizi di incostituzionalità. “Il problema con questa struttura piramidale”, sottolinea La Voce, “è che deresponsabilizza i ministeri di spesa nelle cui attività normali rientrano quelle previste dal Pnrr. Se non si occupano della attuazione del Piano, non si capisce bene che cosa dovrebbero fare nei prossimi cinque anni questi ministri. È un aspetto sul quale un maggior coordinamento va trovato”.
Il Recovery Fund scatenerà gli appetiti dei partiti ma rappresenta un pregiudizio potenzialmente fatale per la tenuta del governo. Che, come detto più volte, ha voluto fare della sua fragilità elettorale e politica un punto di forza. Ma sul Recovery Fund rischia di rompersi definitivamente la macchina negoziale che vede Conte al centro, come mediatore, e di annacquarsi la sintesi tra i programmi dei partiti di maggioranza, Pd e M5S. Potrà il Movimento promuovere un’agenda fatta di grandi opere, investimenti strategici e piani di lungo periodo dopo aver mostrato sui temi un’ambivalenza e un’incoerenza abissale? Come potrà il Pd gestire quel rilancio della sanità che i suoi esecutivi hanno massacrato a colpi di tagli e mancati adeguamenti? Come progettare la transizione ecologica senza passare da un coordinamento tra ministeri e rompendo il circolo dell’austerità? Siamo stretti tra due alternative: lo scivolamento in mani tecniche del dossier e la necessaria ripresa della dialettica politica. Ipotesi che rischiano di far saltare, in entrambi i casi, i nervi nella maggioranza.
Non a caso chi gioca al rialzo è Renzi col suo partito, che presenta la maggiore asimmetria tra la forza elettorale potenziale (stimata attorno al 3%) e il peso nelle istituzioni e in Parlamento e, coi suoi voti, può condizionare la tenuta o la caduta dell’esecutivo, arrivando di fatto a dettarne i tempi. Nessun partito sembra aver aperto un discorso sulla natura temporanea del sostegno, sulla necessità di affiancarlo con una manovra realmente espansiva, sul costo politico delle condizionalità: nuovi litigi aspettano l’esecutivo mentre, in tutto questo, il piano definitivo non è nemmeno completato. Dilettantismo allo sbaraglio, inconcludenza e autoreferenzialità accompagnano l’esecutivo. In attesa del redde rationem sulle responsabilità che molti analisti prevedono arriverà quando scatterà il semestre bianco del Quirinale. Dopo 60mila morti di Covid e di fronte al rischio di anni di recessione, le istituzioni centrali di Roma stanno dando pessima prova di sé nel progettare il rilancio del Paese. E su questo fallimento rischiano di schiantarsi.
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