Per chi ha vissuto l’epoca del Concilio Vaticano II, con l’entusiasmo di una fede che si mostrava sorgente di bellezza e di libertà, per chi ha toccato con mano i sogni e le delusioni del ’68, sfociati nella tragica epopea delle Brigate Rosse e del terrorismo, nella tensione degli opposti estremismi, per chi ha visto il crollo di quella che è stata chiamata, in Italia, la Prima Repubblica, sotto i colpi di un giustizialismo che non si fermava neppure davanti ai tanti, troppi suicidi di coloro che erano inquisiti, per chi ha visto il rinascere di una fede entusiasticamente vissuta dai tanti giovani conquistati dall’imponente figura di Giovanni Paolo II, il Grande, santo subito, per me, che ha amato la Polonia di Solidarno??, capace di cambiare il mondo senza violenza e con la sola forza della verità, per me la caduta del Muro di Berlino, ricordata nell’anniversario del 9 novembre, è sempre sembrato il segno che nella storia è possibile una novità, e che «il declino non è il destino».
Per questo, di fronte al messaggio agli studenti del Ministro Italiano dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara e alle reazioni scomposte di tanta sinistra, sono rimasto colpito dalla chiarezza di quel giudizio, incapace però purtroppo di scalfire l’ideologia di coloro che si sentono ancora orfani di un progetto egemonico di quella parte politica che ha flirtato col marxismo, nostalgicamente invaghita e ottenebrata.
Ma che cosa ha detto Giuseppe Valditara da suscitare reazioni tanto scomposte? Bastino queste parole: «La caduta del Muro [di Berlino], se pure non segna la fine del comunismo – al quale continua a richiamarsi ancora oggi, fra gli altri paesi, la Repubblica Popolare Cinese –, ne dimostra tuttavia l’esito drammaticamente fallimentare e ne determina l’espulsione dal Vecchio Continente.
Il comunismo è stato uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo, nei diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti, e minimizzarne o banalizzarne l’immenso impatto storico sarebbe un grave errore intellettuale. Nasce come una grande utopia: il sogno di una rivoluzione radicale che sradichi l’umanità dai suoi limiti storici e la proietti verso un futuro di uguaglianza, libertà, felicità assolute e perfette. Che la proietti, insomma, verso il paradiso in terra. Ma là dove prevale si converte inevitabilmente in un incubo altrettanto grande: la sua realizzazione concreta comporta ovunque annientamento delle libertà individuali, persecuzioni, povertà, morte. Perché infatti l’utopia si realizzi occorre che un potere assoluto sia esercitato senza alcuna pietà, e che tutto – umanità, giustizia, libertà, verità – sia subordinato all’obiettivo rivoluzionario. Prendono così forma regimi tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le più alte che il genere umano sia riuscito a toccare. La via verso il paradiso in terra si lastrica di milioni di cadaveri. E si rivela drammaticamente vera l’intuizione che Blaise Pascal aveva avuto due secoli e mezzo prima della rivoluzione russa: “L’uomo non è né angelo né bestia, e disgrazia vuole che chi vuol fare l’angelo fa la bestia”.
Gli storici hanno molto studiato il comunismo e continueranno a studiarlo, cercando di restituire con sempre maggiore precisione tutta la straordinaria complessità delle sue vicende. Ma da un punto di vista civile e culturale il 9 novembre resterà una ricorrenza di primaria importanza per l’Europa: il momento in cui finisce un tragico equivoco nel cui nome, per decenni, il continente è stato diviso e la sua metà orientale soffocata dal dispotismo. Questa consapevolezza è ancora più attuale oggi, di fronte al risorgere di aggressive nostalgie dell’impero sovietico e alle nuove minacce per la pace in Europa.»
Ritengo che la chiarezza di questo giudizio abbia il suo valore anche qui tra noi. Abbiamo visto, e continuiamo a vedere, come quella che si è voluta come difesa dei diritti delle donne si è trasformata nella cancellazione dei diritti dei bimbi concepiti, e come una legge che voleva regolamentare l’aborto, sempre chiamato “Interruzione volontaria di Gravidanza”, ha creato da un lato l’ingiusta discriminazione dei lavoratori (i cosiddetti obiettori) costituendo un vulnus ai diritti sanciti dalle Carte internazionali, e dall’altro l’esclusione delle famiglie dal diritto della educazione dei figli, attribuito allo Stato, con iniziative verticistiche che poco hanno a che vedere con la responsabilità dei genitori e con la trasparenza e democrazia nelle decisioni (perché gli esperti che devono intervenire nel campo educativo devono essere messi al vaglio non del potere ma degli utenti aventi diritto).
La libertà di questa Antica Terra va difesa da ogni deriva autoritaria, e il “relinquo liberos ab utroque” deve diventare metodo di democrazia, da conquistare sempre, con vigilanza e impegno di tutti.
Impegno che non si può demandare, e che a volte chiede autentici sacrifici. Una volta Papa Francesco chiedeva ai giovani di non accomodarsi sui facili divani della vita: «La giovinezza per voi non è passività. Tante volte ho parlato – mi ripeto sempre, perché i giovani sono sempre gli stessi – dei “giovani da divano”, quelli che sono passivi, seduti, che stanno a guardare come va la storia. Ma è la storia che deve guardare come vai tu! È brutto trovare un giovane “in pensione”. È brutto. E ce ne sono! E questa è la fine della giovinezza, è invecchiare. A 22, 23, 24 anni, sei in pensione. La giovinezza, ho detto, non è passività, ma è uno sforzo tenace per raggiungere mete importanti.» [Papa Francesco, 23 marzo 2019]
E questo richiamo vale ancora di più per quegli adulti che sono appassionati della educazione dei giovani.
Gabriele Mangiarotti