Il Paese nell’abisso della crisi

A Beirut non è insolito vedere delle auto di lusso che girano tra i grattacieli sparsi disordinatamente nei quartieri, per le tante strade buie: la corrente elettrica costa troppo per tenere accesi i lampioni e va lesinata. È il paradosso di un Paese da anni sull’orlo del collasso, dove la benzina diventa un bene che non tutti possono permettersi e in cui mancano le medicine. Nel Libano un dollaro è arrivato a valere quasi le centomila lire locali e i servizi come la luce e internet non sono per tutti. Per questo mentre i giovani guardano all”African dream’ alla ricerca di riscatto, i ricchi del Paese intrecciano i propri affari con la politica grazie a banche, edilizia ed energia. 

   “Solo il due per cento della popolazione può permettersi di andare a mangiare fuori al ristorante”, spiega Hansen Dbouk, sindaco Tiro, la città più grande del sud povero, con cinquantacinque municipalità e dove ogni giorno qualche commerciante abbassa le serrande senza più rialzarle. “Quelli che girano nelle macchine sportive lavorano in Senegal e Costa d’Avorio” – aggiunge con l’ingenuità di chi crede ad un sogno diventato luogo comune – Da lì tornano con valigie piene di farmaci che qui non si trovano. Ora la sfida è non morire di fame”. Dbouk fa il sindaco da più di dieci anni, è esponente del partito sciita di Amal, una versione moderata e rivale di Hezbollah, e nel difendere il suo clan non abbandona i retaggi del settarismo tribale: “Corrotti e criminali? Ci sono, ma ad Amal basta una telefonata per fermarli”.

“E le scuole quest’anno non sono proprio ripartite”, ammette invece desolato Rabih Kobeissi, il muftì responsabile del centro sciiti di Tiro. Il suo ruolo però gli impone un tabù riguardo ai rischi di radicalizzazione dei giovani e alla crescente povertà della comunità musulmana. Del resto la politica e le diciotto religioni che compongono il mosaico confessionale del Libano, pur convivendo in serenità, non sono mai riuscite a restituire al Paese una visione condivisa del suo passato, “per questo – spiegano – qui i libri di storia non esistono”. Non è l’unico problema dell’istruzione, ora. Con il Paese paralizzato dallo stallo politico, gli insegnanti in sciopero non tornano a scuola da mesi: “non ci pagano più lo stipendio e con i prezzi alle stelle servono almeno duecento dollari al mese per sopravvivere”.

   I campi profughi sono invece i buchi neri in cui si perdono siriani e palestinesi mentre le file di libanesi disperati in cerca di cure si allungano: sono 15mila al mese. “Abbiamo da poco superato l’emergenza colera ma ora fra i neonati crescono il contagio da gastroenteriti virali e le allergie dovute ai rifiuti in strada”, dice Madonna Baradhi, una responsabile della Croce Rossa a cui sempre più spesso si sostituisce Hezbollah, con le sue ambulanze che fanno proseliti tra le famiglie di malati.

   Il Libano è in bilico tra miseria, rabbia sociale e rassegnazione. Ci sono i bancomat dati alle fiamme perché non erogano più dollari, ma c’è anche chi ha smesso di rivendicare i propri risparmi e spera di emigrare nel Terzo mondo. Perché il Quarto sta per cominciare proprio qui.


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