Il Rugby perde la sua leggenda. Addio a Lomu, il gigante buono

jonah-lomu-rugby-challenge-65766bb«FINO in alto, dove il sole splende». È la strofa finale dell’haka, la danza maori degli All Blacks. La sua ultima haka, Jonah Lomu, il dio del rugby, l’aveva guidata a Londra, a Covent Garden, poche settimane fa, accompagnato dai campioni neozelandesi di oggi, come testimonial dei mondiali inglesi. Sembrava in buone condizioni di salute, in un momento di tregua di quella terribile malattia, la sindrome nefrosica, che nel 2004 lo aveva costretto a un trapianto di reni, interrompendone anzitempo una carriera straordinaria.

«PENSATE a che cosa avrei potuto fare di più e di meglio se fossi stato sempre bene, eppure bisogna cercare di lottare e di restare positivi, è quello che dico ai miei due figli», ripeteva, con un sorriso, sempre gentile. Ma il male, l’unico avversario in grado di placcarlo, lo ha stroncato a quarant’anni, sotto forma di un arresto cardiaco, nella sua casa di Auckland, in Nuova Zelanda. Se ne va il Pelè della palla ovale, il più grande All Black di sempre, un mito dello sport, un’assoluta superstar mondiale, a livello dei più grandi numeri uno di tutte le discipline. Lasciando la moglie Nadene, i due figli, Dhyreille di cinque anni e Brayley di sei, la Nuova Zelanda e tutto il mondo del rugby in lutto.

«RIPOSA in pace, campione, sei stato una leggenda per ogni giocatore», il commosso tweet di saluto e di cordoglio di Sergio Parisse, il capitano azzurro. Per capire meglio che cosa rappresenta Lomu, e con lui gli All Blacks, nella storia dello sport, bisognerebbe rileggersi il ‘Libro della Gloria’, di Lloyd Jones. È il bellissimo racconto romanzato della prima tournée europea degli All Blacks, nel 1905. Vinsero trentatrè partite su trentaquattro, sconvolsero i maestri britannici, fu uno choc. Divennero un’attrazione: «Eravamo le cose che stanno in vetrina, ciò di cui sono fatti i compleanni dei bambini, il posto da cui vengono i sorrisi». Una rivelazione.
Lo stesso effetto provocato quasi novant’anni dopo, nel 1994, dall’apparizione di Lomu, di origine tongana, il più giovane esordiente, a 19 anni, nella storia degli All Blacks. Un gigante di 196 centimetri e 120 chili, capace di correre i 100 metri in dieci secondi e otto e di abbattere gli avversari come birilli. Il campione che ha reso universale il rugby, cambiandone la storia e portandolo nel professionismo.

TRENTASETTE mete in 63 partite con gli All Blacks, il record (eguagliato in Inghilterra dal sudafricano Habana) di 15 mete in due edizioni della coppa del mondo, il suo mito legato in particolare alle quattro mete agli inglesi nella semifinale mondiale del ’95, quando travolse e calpestò gli avversari, come un toro al galoppo, e a una meta di culto nel ’99 alla Francia, portandosi oltre la linea quattro francesi che gli stavano aggrappati addosso, senza riuscire a fermarlo. La sua maglia nera rappresentava davvero il lutto degli avversari, secondo l’epica All Blacks.
A nome dei tre volte campioni del mondo, lo ha salutato il capitano Richie McCaw, l’uomo che a Twickenham, a fine ottobre, ha alzato la coppa: «Sei stato il migliore, riposa in pace, amico». Perché un grande rugbista, e Lomu lo è stato più di tutti, non muore mai, al massimo passa la palla.