La notizia della sentenza di condanna di Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991 e leader birmano da anni agli arresti domiciliari, è un’altra brutta pagina nella storia dell’umanità.
In tanti ci siamo augurati, forse ingenuamente, che dal Myanmar arrivasse finalmente un segnale di cambiamento rispetto al passato e di speranza per il futuro. Purtroppo così non è stato. La sentenza raggiunge un obiettivo chiarissimo: impedire ad Aung San Suu Kyi, eletta circa vent’anni fa con una maggioranza schiacciante dal suo popolo, di candidarsi alle elezioni politiche dell’anno prossimo, riducendo le stesse ad una operazione di facciata.
Il regime militare birmano, che ha a suo tempo annullato i risultati delle elezioni politiche in cui Aung San Suu Kyi era stata democraticamente eletta e che da anni impedisce ai birmani di esercitare i diritti e le libertà fondamentali, quali la libertà di espressione, di associazione e quella di scegliere da chi essere governati, continua tranquillamente ad ignorare gli appelli che giungono da varie parti del mondo.
La sentenza è un atto grave, al quale mi auguro che la comunità internazionale sappia rispondere con fermezza, anche per sostenere un popolo che da anni sta pagando a carissimo prezzo il cammino verso la libertà ed il rispetto dei diritti fondamentali.