Il vero prezzo dell’incompetenza

Non esiste una formula matematica per creare il governo perfetto, ma di sicuro la prima operazione da fare è la sottrazione. In questi giorni di grande ottimismo, mentre i dati sul contagio in Italia finalmente crollano e quelli sugli immunizzati decollano e si parla di «ritorno alla normalità», il dibattito è su quanta parte di questo successo sia attribuibile direttamente a Mario Draghi.

A fronte di una celebrazione bipartisan, interclassista e internazionale – ieri Bloomberg ricordava che il premier «ha dato all’Italia una statura in Europa senza precedenti negli ultimi anni» -, c’è chi dubita dell’effettiva portata della sua azione. Tutto più facile, dicono, quando dopo mesi di magra piovono milioni di dosi di vaccini, i partiti ti si accovacciano ai piedi come setter davanti al camino e l’Europa ti guarda con gli occhi dell’amore. Piuttosto vero, come ammesso dallo stesso Draghi. Ma il vero tema è: alle stesse condizioni, un altro conducator avrebbe ottenuto lo stesso risultato?

Ed è qui che la tanto agognata uscita dal tunnel, il «riveder le stelle» dantesco che stiamo vivendo in questi giorni, si incrocia con il fantasma dei governi passati. Ieri la Corte dei Conti ha spiegato perché ha dovuto bloccare il finanziamento di 81 milioni a ReiThera, il vaccino italiano. I giudici lo hanno fatto perché la struttura commissariale (cioè Domenico Arcuri) aveva pasticciato sulla destinazione dei fondi. Un errore. Ma solo l’ultimo di una lunga serie che – fra banchi a rotelle, Primule, mascherine farlocche, app di tracciamento, ecc. – è costata all’Italia 1,4 miliardi di euro. Non il costo di un caffè alla buvette, né di un’auto blu, né tanto meno di un palazzo ministeriale, per rimanere nell’universo degli anti-casta. No, esattamente quanto perso dal settore turismo nelle vacanze di Pasqua, oppure quanto stanziato dal Conte bis per la ricerca nel decreto Rilancio 2020.

La risposta, a questo punto, dovrebbe essere chiara. Con il mare contro, non c’è skipper che riesca a volare, ovvio. Ma in condizioni perfette, uno skipper decente veleggia bene; uno inesperto, che si circonda di sottufficiali mediocri ed è troppo concentrato sul decidere se in foto al timone viene meglio di fronte o di profilo, rimane comunque alla fonda. Draghi al momento non ha ancora dato prova di essere l’ammiraglio Nelson, dipingerlo come genio, eroe o messia non fa un buon servizio alla verità. Ma ha un merito innegabile: ha rilasciato la zavorra. Ha spazzato via la ridda di amichetti e clienti che il suo predecessore aveva dovuto piazzare nei gangli della gestione dello Stato. Struttura commissariale, Protezione civile, Anpal, Cts, servizi segreti: ad ogni posto di combattimento, un uomo (o donna) all’altezza, a dispetto di amicizie e pressioni partitiche. Una sottrazione, appunto, che ha liberato le energie organizzative e portato a un trionfo «logistico», come ricordato dal premier. Parola borghese e impiegatizia, ma che mai è suonata così entusiasmante.

Perché finora l’unico vero merito di Draghi è questo: aver rimesso l’efficienza al centro di uno Stato minimo, sostituendo la piacioneria barocca di Conte e della sua corte con una managerialità gestionale e meritocratica poco emozionante, ma molto efficace. È riuscito a farlo perché – grazie all’ombrello del Quirinale – può permettersi di ignorare le grida a salve dei leader politici che lo sostengono obtorto collo, ma il risultato in soldoni è pesante: la cancellazione della «tassa dell’incompetenza», che – euro più, euro meno – vale 1,4 miliardi. Più che di rischio ragionato, forse bisognerebbe parlare di successo calcolato.


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