«Io, accoltellata da mio marito e viva per miracolo. Lui è stato solo sette mesi in carcere e io sono rimasta invalida»

Barbara è viva per miracolo. Nessuno credeva che potesse farcela. Non lo credevano i familiari, non lo credevano perfino i medici. Tre giorni di coma, sei delicatissimi interventi. Era arrivata al pronto soccorso con tre squarci sulla pelle: alla schiena, sul petto, alla nuca. Accoltellata dal marito. Aggredita brutalmente in una notte da incubo. Mentre lei dormiva, l’uomo che aveva sposato cominciò a colpirla con un quadro. Una furia dirompente. Lei si svegliò di soprassalto. Quando aprì gli occhi, il marito aveva un coltello in mano. Uno, due, tre fendenti. Il sangue divampava dal suo corpo ferito, gocciolava sul pavimento di casa. Era la notte del 7 settembre 2014. Poi la fuga, con le poche forze rimaste a disposizione. L’emorragia sempre più intensa, il soccorso dei vicini in piena notte. L’ambulanza, l’ospedale. Poi il miracolo, il risveglio, la riabilitazione. E la certificata invalidità biologica del 65 per cento, ostacolo per una nuova vita.

Il marito è stato arrestato. Ha fatto soltanto sette mesi di carcere, poi i domiciliari. Una beffa, per Barbara Portela, 40 anni, che ancora non ha avuto alcun risarcimento dall’aggressore. Lui si è suicidato durante gli arresti domiciliari: scappò di casa, lo ritrovarono in un torrente, senza vita. E Barbara è rimasta senza risarcimento. E senza soldi, non può ricominciare a vivere. “Ho finito i miei soldi per seguire la riabilitazione”. E’ disoccupata, non può pagarsi lo psicologo, fatica a trovare lavoro perché invalida. Si porta dietro tantissimi dolori. Non solo psicologici. Ha problemi di deambulazione, cammina con difficoltà, viaggia con una strettissima pancera per attutire i dolori alla pancia. Ha problemi all’intestino.

Il lavoro è un miraggio. “Non reggo più una giornata lavorativa di otto ore, ma vorrei tanto tornare a lavorare nel sociale”. Prima era una maestra d’asilo, amava il suo lavoro. Oggi è una donna disperata. Ieri aggredita, oggi disoccupata. “Dov’è lo Stato”? si chiede. E’ delusa, amareggiata: “Non ho avuto giustizia. Prima il danno, poi la beffa”. Non avendo ottenuto alcun risarcimento in sede penale, adesso i suoi avvocati, quelli che la stanno seguendo nel procedimento civile, hanno proceduto con un atto di citazione in tribunale, nella speranza che il risarcimento possa arrivare dagli eredi dell’aggressore.

Barbara è fragile, ma coraggiosa. Non molla, animata dalla fede. E’ felice di essere sopravvissuta. Scampoli di sorrisi in un tumulto di singhiozzi. Lacrime sull’orlo delle palpebre. Speranza e pianti torrenziali, una vita sul filo dei sentimenti. Ricorda quella notte, perché ricordare aiuta a metabolizzare il trauma. È quasi una liberazione, per quanto dolorosa. Piange. Non potrà mai dimenticare. Però è viva. E di questo ringrazia Dio. È convinta che sia stato un angelo a farla sopravvivere. È stato proprio questo – la sua profonda fede e la sua generosità – a tenerla ancorata al marito. “Era squilibrato – dice Barbara – ma riconoscevo che era malato, per cui gli sono stata accanto”. Non è facile spiegare: “Ci si trova prigioniere della persona che si è sposata”.

Vorrebbe che la sua tragica esperienza potesse essere d’aiuto per le tante donne vittime di violenza: “Se i vostri compagni sono violenti, andate via, non vi fate abbindolare, non restate prigioniere, cercate aiuto”. Lei di aiuto, ne ha avuto poco. Poco sostegno anche dai centri antiviolenza: “Ci sono poche strutture in Italia, il loro lavoro è messo a dura prova e non sempre hanno gli strumenti per aiutare le donne in difficoltà”. Barbara si è sentita abbandonata. Da tutto e da tutti. Tranne che dagli amici, da sua madre e dalla fede. Riparte proprio da qui, consapevole che, se giustizia sarà fatta e arriverà un lavoro, potrà tornare ad essere felice. Corriere.it