IN OTTO sotto il velo. È un remake, ma non si tratta di una commedia rosa. La Nazionale di calcio femminile dell’Iran è stata accusata di schierare otto atleti di sesso maschile. Uomini sotto il velo, appunto, per vincere. Ricadendo nel peccato, anzi nel vizietto, a pochi mesi di distanza dal primo ‘incidente’.
Nel febbraio 2014 quattro ragazzi furono sospesi dalla Federazione iraniana perché sotto il velo, imposto alle donne anche quando fanno sport, le carte non erano in regola. Lo stesso staff medico della Nazionale eseguì l’esclusione nel clamore generale.
Stavolta, il raddoppio. Annunciato dalla televisione satellitare al-Arabiya e ribadito dal funzionario Mojtabi Sharifi, gola profonda del campionato iraniano. «Nella Nazionale femminile giocano ancora uomini che non hanno ultimato gli interventi per il cambio di sesso. Sono otto».
CALCIATORI, non calciatrici. Nessun processo alle intenzioni perché, come già capitato nella prima occasione, si tratterebbe di ‘lavori in corso’. Ossia di atleti in attesa di concludere le operazioni per diventare donne, in molti casi in sofferenza per disturbi legati al nuovo sviluppo sessuale.
Questione delicata, in tutti sensi. Ma nessuna condanna morale o ancora più severa: il cambio di sesso nella ex Persia è lecito da quasi trenta anni, in accordo con una fatwa, ovvero una sentenza, nientemeno che dell’Ayatollah Khomeini risalente al 1987. Una legge liberale che stride con molte norme assai rigide che censurano l’omosessualità. Nei fatti, essere gay è vietato e quindi l’unica via possibile per evitare guai rimane quella chirurgica.
Non a caso l’Iran è diventato il secondo paese al mondo per l’operazione di cambio del sesso, con circa 300 l’anno, dietro al Marocco. Addirittura la metà delle spese sostenute viene rimborsato dallo stato.
I RAGAZZI che hanno violato i regolamenti, non saranno squalificati o perseguitati. Anzi, potranno tornare a disposizione del commissario tecnico una volta ultimato l’iter chirurgico. Il pugno di ferro invece potrebbe essere riservato ai club di provenienza, che non hanno effettuato le visite dei medici, anche a sorpresa, che la Federazione locale aveva imposto. I test avrebbero dovuto essere obbligatori per tutti i tesserati, ma evidentemente così non è stato. La Fifa, la federazione internazionale, non intervenne nella scorsa occasione: non lo farà nemmeno stavolta, alle prese con ben altri problemi.
Il lato più grottesco della vicenda è anche quello più palese e boccaccesco, questo sì degno di una commedia rosa degli anni Settanta. Come hanno fatto gli otto atleti a ingannare per oltre un anno dirigenti, allenatore e compagne di squadra solo grazie al velo?
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