Jackson Hole: sul tavolo dei banchieri centrali i dilemmi su come affrontare le prossime crisi

Janet Yellen. Presidente FED.
Janet Yellen. Presidente FED.

Il simposio americano sancisce la ripresa dell’attività delle Banche centrali. Il mercato guarda alle indicazioni che arriveranno sulle prossime mosse Fed. Ma sul tavolo ci sono grandi temi che toccano il futuro: come le istituzioni centrali possono continuare a guidare l’economia in un sistema toccato alla base dalla crisi, che ha esaurito i loro strumenti. Senza la politica, ogni sforzo sarà vano.
MILANO – Indicazioni (un po’) più chiare sui prossimi rialzi dei tassi; ma anche una riflessione ampia sugli strumenti in mano alle banche centrali per raggiungere i loro obiettivi, sulla scorta dell’insegnamento del recente passato e delle necessità del futuro. I banchieri centrali arrivano a Jackson Hole per l’annuale simposio che sancisce la ripresa dell’attività e i mercati guardano con ansia alle parole che Janet Yellen pronuncerà nel pomeriggio italiano di venerdì, seconda giornata del summit nel Wyoming.

I tassi Usa. L’elemento più scottante sul tavolo è il possibile rialzo dei tassi americani, al momento nella fascia 0,25-0,5%. I tassi sono stati alzati per la prima volta dal 2006 nel dicembre scorso, dopo essere rimasti fermi ai minimi storici dal dicembre del 2008. Quando è scattato l’attesissimo primo innalzamento, si ipotizzava un calendario di altri quattro rialzi nel corso del 2016. Ma prima il tracollo dei mercati asiatici, poi la Brexit e le difficoltà dell’Eurozona hanno messo in secondo piano il fatto che gli Usa siano arrivati alla piena occupazione (senza lavoro sotto il 5%) e che l’economia cresca vicino al 2%, e alla fine dall’Eccles Building – sede della Fed – non è arrivato ad ora alcun rialzo ulteriore. Ora si attende di capire cosa succederà nelle prossime riunioni del Fomc, il braccio operativo della Fed che discuterà a fine settembre e poi di nuovo a fine dicembre. Domani è in arrivo la revisione intermedia del Pil americano del secondo trimestre, e la settimana prossima l’atteso dato sul lavoro di agosto: secondo gli analisti è probabile che Yellen cerchi di tenersi aperte tutte le porte per far capire agli investitori – ormai abituati da anni a lavorare con il “denaro facile” – che una stretta monetaria, per quanto graduale, potrebbe arrivare presto. Al momento, i mercati attribuiscono il 28% di possibilità a un rialzo dei tassi nella fascia 0,5-0,75% nella riunione del 20-21 settembre: un dato in crescita negli ultimi giorni, ma ancora contenuto. Per trovare lo sbilanciamento oltre il 50% bisogna arrivare alla riunione del 14 dicembre prossimo, ultima occasione dell’anno.

I banchieri centrali Usa sembrano aver giocato carte contrastanti, proprio in un disegno che – se dall’esterno appare una comunicazione confusa – ha l’effetto di tenere tutte le opzioni aperte: i verbali dell’ultima riunione hanno mostrato un consiglio spaccato, con il prevalere di toni da “colomba”. Ma il governatore della Fed di New York, William Dudley, e i sui colleghi di San Francisco e Atlanta, John Williams e Dennis Lockhart, nei giorni seguenti hanno aperto alla possibilità di aumento il mese prossimo. Anche il numero uno di Dallas, Robert Kaplan, ha detto che, se la crescita americana si attesterà attorno al 2% e il tasso di disoccupazione si attesterà in calo, “sarà appropriata la rimozione di una parte delle misure di accomodamento”.

A tifare contro un aumento immediato c’è il calendario: la corsa alla Casa Bianca, con il voto a novembre, suggerisce per “opportunità politica” che Yellen si astenga da una simile decisione, almeno finché i giochi per la successione di Obama non siano fatti. Ma non mancano le voci che chiedono una normalizzazione della politica monetaria, per evitare bolle o scenari nefasti sui mercati. Secondo Mohamed el-Erian, capo economista di Allianz ed ex numero uno di Pimco: “Non agire potrebbe contribuire a un’eccessiva assunzione di rischio”. Preoccupazione condivisa anche da Michael Gapen, economista di Barclays, che in accordo con Carl Tannenbaum, capo economista di Northern Trust di Chicago ha sottolineato come nei verbali sia emersa la considerazione di “una possibile sopravvalutazione del mercato immobiliare commerciale, un elevato livello dell’azionario rispetto ai profitti e maggiore assunzione di rischio in un contesto di tassi bassi per un periodo prolungato”.

Le questioni sul tavolo: dove vanno le Banche centrali? Gli addetti ai lavori uniti nel Wyoming si interrogano anche su altre questioni di fondo legate all’attività dei banchieri centrali, che d’altra parte si riuniscono sotto il titolo “Designing Resilient Monetary Policy Frameworks for the Future”. La discussione (orfana di Mario Draghi) è ampia, ma ruota intorno al concetto di “tasso neutrale”: in sintesi, individuare il livello di tassi al quale la politica monetaria risulta “indifferente” per l’economia. Capire cioè in quale posizione la Banca centrale non sta né supportando la crescita, né cercando di frenare la cavalcata dei prezzi. Un livello che per la Fed veniva indicato tra il 4 e il 4,5%, del quale molti non sono più sicuri: la crescita potenziale degli Usa – come degli altri Paesi occidentali – è stata colpita pesantemente dagli ultimi anni e questo non può non riflettersi sugli obiettivi della Banca centrale. Luke Bartholomew di Aberdeen vede la questione dal lato della “stagnazione secolare” nella quale ci ritroviamo: “In linea generale, ci sono stati profondi cambiamenti nelle economie. Visto dal lato dell’offerta, significa che la crescita potenziale dell’economia sarà molto più bassa in futuro; dal lato della domanda, che l’economia non riuscirà a crescere in linea con il suo potenziale”. Le due interpretazioni, pur differenti, portano a una conclusione comune: “I tassi d’interesse che consiederiamo ‘normali’ saranno in futuro più bassi di quanto siano stati in passato”.

E qui si gioca anche la possibilità futura di affrontare una eventuale nuova recessione: il timore è che, con la leva dei tassi dimezzata, la Banca centrale non abbia ancora gli strumenti necessari per affrontare e superare una crisi. Il governatore di San Francisco, John Williams, ha alimentato il dibattito con un saggio ferragostano. “La discussione sarà sulla prossima recessione e su quanto spazio di manovra c’è per combatterla”, ha spiegato al Financial Times Donald Kohn, ex vice governatore della Fed. “Dobbiamo ripensare a quanto spazio abbia la Banca centrale per mettere in campo politiche accomodanti”. Ma tra i governatori sembra prevalere l’ottimismo. La maggioranza sostiene infatti che ci siamo abbastanza strumenti a loro disposizione in caso di una crisi economica. Williams crede che si debba alzare l’obiettivo di inflazione (ora al 2%), portando così un po’ più in alto il tasso neutrale. L’altro grande capitolo esula dalle stanze dei governatori: molti sostengono che sono le autorità politiche che dovrebbero migliorare i loro

interventi. Non è un mistero che, ormai da mesi, lo stesso Draghi invochi l’attivazione delle politiche fiscali e delle riforme per fare da spalla alle scelte di politica monetaria: la leva dei tassi e delle operazioni straordinarie, da sola, non può più sollevare il mondo.

La Repubblica.it