La Brexit avanza e spacca l’opposizione. Corbyn: “La vera lotta inizia ora”, Nicola Sturgeon “Sei patetico”

La Brexit avanza, e questo tutto sommato era previsto. Meno previsto è che avanzi senza ostacoli, o meglio superando senza difficoltà quelli che l’opposizione mette sul suo cammino. Ma la vera notizia è che la Brexit, avanzando, ha spaccato l’opposizione. E messo alla berlina il leader laburista Jeremy Corbyn.

“La vera lotta inizia ora”, sostiene lui, promettendo di fare di tutto per limitare la Brexit nei prossimi due anni. “Sei patetico”, gli risponde su Twitter la premier scozzese Nicola Sturgeon, “hai appena dato un assegno in bianco al governo conservatore per fare quello che vuole”. E sul web molti altri lo prendono ferocemente in giro per avere di fatto avvallato la Brexit. “Mi viene in mente quella battuta di Monthy Python in cui un cavaliere, dopo che gli hanno tagliato braccia e gambe in un duello, dice all’avversario: chiudiamola qui e diciamo che è un pareggio”, commenta un giornalista della Bbc.

Il terzo e definitivo voto con cui la Camera dei Comuni ha approvato a larga maggioranza (494 a 122) l’invocazione dell’articolo 50 del Trattato di Lisbona, la norma del trattato europeo che mette in moto la secessione di uno stato dalla Ue, mai entrata in funzione fino ad ora, ha fatto riemergere la divisione profonda che esiste nel partito laburista. Corbyn aveva proibito libertà di voto ai propri deputati, esortandoli a votare a favore dell’articolo 50, ossia della Brexit, nonostante il fatto che tutti gli emendamenti presentati dal Labour nel dibattito in parlamento fossero stati bocciati.

Più volte accusato di tiepida simpatia per la Ue, se non aperta antipatia, in questo caso il leader si è schierato per la Brexit per un preciso calcolo politico. Un terzo dell’elettorato laburista, secondo i sondaggi, ha votato per la Brexit nel referendum del giugno scorso. Voltare le spalle a questi elettori, contrastando la Brexit ai Comuni, comportava il rischio – perlomeno secondo il leader laburista – di perderli per sempre, gettandoli nelle braccia dell’Ukip, il partito populista anti-europeo che è all’origine del referendum sull’Europa. Ma così facendo Corbyn ha corso un altro rischio: quello di perdere, o perlomeno irritare, i due terzi di elettorato laburista che nel referendum hanno votato per restare nella Ue.

È presto per sapere quali saranno le reazioni di questi elettori: il partito liberal-democratico, l’unico (insieme ai nazionalisti scozzesi) apertamente filo-europeo, al punto di chiedere un secondo referendum per ribaltare il risultato del primo, li invita apertamente a votare lib-dem quando verranno le prossime elezioni. Ma intanto si è già vista la reazione dei deputati laburisti, una cinquantina dei quali hanno disobbedito agli ordini di Corbyn, votando contro l’articolo 50, ovvero contro la Brexit.

Tra loro ci sono anche tre membri del “governo ombra” del Labour, in pratica il nucleo dirigente del partito, compreso Clive Lewis, che ricopriva l’incarico di ministro del Business ed è, o almeno era fino a questo momento, un alleato chiave di Corbyn. “Io rappresento gli elettori che hanno votato contro la Brexit”, ha detto giustificando la sua decisione. In nome, per così dire, di quel 48,1 per cento, quasi metà del Paese, che ha votato per rimanere in Europa e di cui il governo May, ma adesso pure l’opposizione laburista, non sembra interessarsi.

La sfida dei deputati ribelli ha suscitato voci di una nuova crisi nel partito laburista. Sono circolate voci che Corbyn sarà costretto a dimettersi, per essere rimpiazzato proprio da Lewis, peraltro anche lui un esponente della sinistra del Labour, non un moderato “blairiano”. Tramite i suoi collaboratori, il leader le ha smentite. Del resto ha vinto due primarie per la leadership in due anni e pare dubbio che se ne farà già una terza. Ma la controversa scelta di appoggiare la Brexit divide sempre di più un partito che si ritrova fra le mani la classica coperta troppo corta: se copre l’elettorato operaio brexitiano di provincia scopre l’elettorato europeista metropolitano, e viceversa. E di questa debolezza si avvantaggia Theresa May, che continua a marciare verso il promesso annuncio, entro il 31 marzo (forse già il 9, secondo indiscrezioni, se le andrà tutto bene) dell’articolo 50: il grilletto che dà il via ai previsti due anni di negoziato con Bruxelles per uscire dall’Unione dei 28, che a quel punto diventerà dei 27.

Qualche ostacolo rimane ancora, tuttavia, prima che la premier giunga a questo appuntamento con la storia. La risoluzione sulla Brexit passerà adesso, a partire dal 20 febbraio, alla camera dei Lord, dove c’è una ampia maggioranza pro-Ue. In teoria i Lord avrebbero i voti per fare passare gli emendamenti bocciati alla camera dei Comuni, in particolare sulla promessa unilaterale che i tre milioni di cittadini europei residenti in Gran Bretagna potranno restarci per sempre anche dopo la Brexit. Ma i Lord sono nominati, non eletti dal popolo, e come afferma il ministro per la Brexit David Davis sarebbe clamoroso se “votassero contro il mandato popolare” espresso nel referendum.

Per la verità il referendum non stabiliva il destino dei tre milioni di europei residenti in Gran Bretagna. Ma il governo, rivela la Bbc, avrebbe minacciato di abolire la camera dei Lord se non voterà come hanno votato i Comuni. Se i lord modificheranno la risoluzione approvata dalla camera “bassa”, la risoluzione tornerà a quest’ultima, che avrebbe in ogni caso la decisione finale: in tal modo, però, si allungherebbero i tempi e non è detto che l’articolo 50 scatterebbe entro il 31 marzo.

Come che sia, la corsa per uscire dall’Europa procede. Riassunta ironicamente da una vignetta sul Times, in cui si vede la May che sta per sparare il via a una gara, come si fa nell’atletica leggera, con ai suoi piedi un churchilliano bulldog con i colori dell’Union Jack, la bandiera britannica. Solo che al momento di sparare la premier non spara in cielo: spara al bulldog, uccidendolo. Allusione alla Scozia, che ha votato contro la Brexit nel referendum, ha votato contro l’articolo 50 con un simbolico voto del proprio parlamento regionale nei giorni scorsi e in cui il consenso all’indipendenza è cresciuto in pochi mesi dal 44 al 49 per cento, sfiorando dunque la maggioranza.

Considerato che la Brexit suscita analoghi sentimenti secessionisti anche in Irlanda del Nord, la corsa per uscire dall’Unione Europea potrebbe davvero concludersi con un Regno Disunito di Gran Bretagna. Grazie non solo all’Ukip e ai Tories, ma pure con l’aiuto di Jeremy Corbyn, un leader laburista che potrebbe passare alla storia per ragioni di cui a lungo rammaricarsi. Repubblica.it