Napolitano ha continuato a fare il regista bacchettando Renzi pur non essendo più presidente. Ed è stato punito.
Poi un giorno, in sede di rivisitazione storica e pubblica ammenda, occorrerà anche occuparsi di una certa, discreta perseveranza.
La perseveranza nell’errore, che pure domina nella lunga e fortunata parabola di Giorgio Napolitano, Giorgio ‘o Sicch’, come lo definì la giovane Miriam Mafai per distinguerlo, tracciandone una linea di demarcazione più umana che politica, da Giorgio ‘o Chiatto, ovvero Amendola, di cui Napolitano era dichiarato sempiterno allievo. Ex pugile, generoso, roboante nell’eloquio quest’ultimo, almeno quanto di figura segaligna, fredda e aristocraticamente allampanata risultava il primo. Gelido pure nell’eloquio, con un chè di burokraticheskiy: categoria originata non certo dalla Rivoluzione bolscevica, ma che a Mosca aveva trovato la sua arida realizzazione con la capacità imperturbabile di negare l’innegabile e tacere l’evidenza, al fine di azzerare persino la memoria.
L’ingloriosa, prematura fine di Matteo Renzi, ultima delle sue invenzioni politiche, designa anche la morte per esaurimento della spinta propulsiva che Napolitano, per opera e virtù sconosciute, ha perseverato a inseguire in Italia. Riconducendo quel che era un ritardo di adeguamento, una fragilità politica, un’incapacità gestionale, se vogliamo, alla chimera delle riforme costituzionali, in particolare al taglio di alcuni rami secchi, e che pure non avrebbero cambiato un checché della vita dell’italiano medio. Il fatto è che Napolitano, due volte sugli altari del Quirinale per asfissia di leader adeguati, della vita della gente comune non ne ha mai voluto sentir parlare. Anche perché poco ne capisce e ancor meno gliene cale. La sua essendo una parabola vissuta nella Napoli del Dopoguerra, eppure talmente «bene» da concepire la rivoluzione come strumento d’ordine e «pacificazione» alla sovietica. Carri armati e rimozione, come quando l’ormai ottuagenario presidente recò omaggio alla tomba dell’insorto Nagy del ’56, e non una parola lambì gli errori fatti da gran parte dei dirigenti comunisti occidentali. In primis, dal Sé medesimo.