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Nelle scorse settimane avevamo sottolineato che sempre più indizi lasciavano presagire un graduale sfaldamento del sostegno del Partito democratico al governo giallorosso e, in particolare, alla figura del premier Giuseppe Conte. Il Pd non vuole pagare il prezzo politico del naufragio di un esecutivo dimostratosi inadeguato a programmare la ripresa del Paese, in cui alcuni dei ministri sottoposti al fuoco delle critiche (Paola de Micheli, Roberto Gualtieri, Francesco Boccia) sono suoi esponenti e in cui il presidente del Consiglio agisce sempre di più in autonomia muovendosi con colpi di mano (vedasi il recente caso cyber) e arrocchi (la nomina di sempre nuove task force), ed è soprattutto accusato di uno scarso aplomb istituzionale nei confronti dei partiti di maggioranza.
Il Conte “grande statista”, “punto di riferimento dei progressisti” (Nicola Zingaretti), che avversari e alleati hanno accostato a Giulio Andreotti (Giancarlo Giorgetti), Alcide de Gasperi (Pierluigi Bersani) e Arnaldo Forlani (Antonio Socci) è sempre più incardinato negli apparati di Palazzo Chigi con cui mira a confondersi e sovrapporsi per garantire la durata del suo governo. La grande popolarità conquistata nei primi mesi della pandemia, comprensibilmente, è andata esaurendosi e scemando. Conte si è rivelato un “alieno” della politica italiana e dall’interno della maggioranza i giochi di sistema hanno iniziato a organizzare cordate ostili alla sua leadership.
La legittimazione internazionale e il sostegno statunitense, dal ritorno al governo del Pd in avanti, hanno iniziato a soffiare nella direzione dei ministri dem, con Lorenzo Guerini e Vincenzo Amendola ritenuti gli uomini più affidabili; Luigi Di Maio, ministro degli Esteri e leader di quel Movimento Cinque Stelle a cui è indubbio che Conte debba l’elevazione dalla carriera accademica al ruolo di premier, va riorganizzando le sue truppe per tornare centrale; nelle ultime settimane le aperture al dialogo di Forza Italia nel quadro dell’opposizione vanno spiegate più nell’ottica della volontà di togliere terreno a Conte aprendo la dialettica tra partiti piuttosto che come “soccorso” azzurro all’esecutivo.
Quanto a lungo può tirare a campare Conte in queste condizioni? Tutti i fari sono puntati su una data: 31 luglio 2021. Dopo quella data inizierà l’ultimo semestre di presidenza di Sergio Mattarella, in cui anche in caso di crisi di governo l’inquilino del Quirinale non può sciogliere le Camere e riportare il Paese al voto, dunque rendendo necessaria una parlamentarizzazione e una risoluzione istituzionale della crisi.
Se non si produrranno smottamenti decisivi capaci di riportare il Paese alle urne nei prossimi otto mesi, da allora in avanti si apriranno due partite: quella per la scelta del prossimo presidente della Repubblica e quella per gli assetti politici che condurrebbero al termine di una legislatura blindata fino al 2023. Fattispecie che, unitamente alle dinamiche dell’emergenza sanitaria ed economica, rischierebbero di rendere Conte “obsoleto”: meno rilevante politicamente per Pd e opposizione, schiacciato nella sua formale neutralità anche di fronte al Movimento che lo ha espresso, privo di “grandi elettori” da manovrare nella corsa al Quirinale, uscito dal suo momento di massima popolarità, avrebbe un danno dalla sua formale indipendenza.
Anche lo stratega del Pd Goffredo Bettini “ha ben presente la data di inizio del semestre bianco”, nota Italia Oggi. “Ma fino a quel momento, spiegano parlamentare di lungo corso, ci saranno tante chiacchiere e solo pochi fatti. Annusamenti reciproci ma niente di più. Per questo Giuseppe Conte ancora per qualche mese potrà tirare a campare”. Che carte può giocare il premier per evitare questo scenario di marginalizzazione che aprirebbe a un cambio di governo e, probabilmente, a nuove maggioranze? Una manovra potrebbe essere la spinta su un rimpasto di governo volto a cercare di riequilibrare e mettere una contro l’altra le cordate interne e le correnti di Partito Democratico e Movimento Cinque Stelle; un’altra una vera e propria centralizzazione su Palazzo Chigi delle politiche comunitarie e della gestione dei fondi europei, per provare a ribadire la sua indispensabilità. Parliamo di manovre in cui la sopravvivenza dell’attuale esecutivo è data come prioritaria rispetto al bene del Paese.
Un’ultima soluzione, extrema ratio, cui Conte potrebbe giocare sarebbe quella di non chiudere mai la porta alla possibilità di un ritorno al voto in caso di crisi sopravvenuta prima dell’estate. La necessità di fronteggiare un centro-destra maggioritario guidato da Matteo Salvini e Giorgia Meloni, il mancato accordo su una nuova legge elettorale e il mantenimento dell’assetto maggioritario imporrebbero a Pd e M5S, in questo caso, di correre uniti, senza poter trovare altro leader se non l’odierno inquilino di Palazzo Chigi.
Una suggestione, certo, ma il Corriere della Sera recentemente ha segnalato come dal Pd siano trapelati ira e sconcerto di fronte al recente “colpo di mano” con cui Conte ha portato in Consiglio dei Ministri il ridisegno dei collegi elettorali adattati alle conseguenze del recente referendum che ha tagliato il numero di deputati e senatori, aprendo alla possibilità di tornare alle urne con il sistema elettorale misto del Rosatellum. Non vogliamo avventurarci nella fantapolitica, certamente, ma nemmeno escludere questa pur remota possibilità: Conte, abituato al potere, non vuole mollarlo. Ma i suoi attuali alleati sanno che durante l’estate potranno, nel caso la sua figura inizi a risultare ingombrante per futuri assetti di potere, pensare a un dopo-Conte quando il semestre bianco escluderà la temuta opzione delle urne.
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