A El Salvador, il Centro di Confinamento per il Terrorismo, meglio noto come Cecot, rappresenta una delle strutture carcerarie più severe e controverse al mondo. Inaugurato sotto la presidenza di Nayib Bukele, il carcere ospita i cosiddetti “peggiori dei peggiori”: uomini accusati di omicidi, traffico di droga e crimini di gang, detenuti in condizioni rigide, quasi disumane, sorvegliati costantemente e isolati dal mondo esterno. Le celle non hanno letti adeguati né spazi di conforto: gli uomini dormono su brande di metallo, con accesso limitato al cibo e all’acqua, in un isolamento che li priva di qualsiasi contatto umano, poiché non è consentita alcuna visita. Sotto sorveglianza armata, sono costretti a passare le giornate in inattività o, al massimo, in brevi sessioni di esercizio e preghiera. Questa repressione, che ha permesso una riduzione della violenza nelle strade, ha però alimentato critiche internazionali e preoccupazioni per il rispetto dei diritti umani: associazioni e attivisti denunciano che l’assenza di programmi riabilitativi e il totale distacco dalla società renderanno gli uomini delle bombe pronte a esplodere, pericolosi anche qualora fossero rilasciati.
Spostando lo sguardo verso l’Italia, emerge una realtà altrettanto drammatica ma incentrata sul sovraffollamento e la cronica mancanza di risorse nelle carceri. Secondo i dati recenti, la popolazione carceraria italiana ha raggiunto oltre 61.000 persone, superando di molto la capienza ufficiale degli istituti, con un tasso di sovraffollamento medio che sfiora il 135%. In molte strutture, la situazione è insostenibile: celle strette, sporche, prive di ventilazione, sovraffollate di detenuti che vivono in condizioni inumane, senza il diritto a uno spazio minimo vitale e spesso privi di assistenza medica o psicologica. A queste difficoltà, si somma la carenza di personale penitenziario, aggravata da un turnover insufficiente. L’emergenza non è solo numerica ma anche di diritti: dall’inizio dell’anno, si sono verificati numerosi suicidi tra detenuti e agenti, eventi che mettono in luce il grave stato di sofferenza psicologica in cui versano i carcerati.
Il decreto “Carcere sicuro”, proposto dal governo italiano come soluzione parziale, punta principalmente all’assunzione di nuovi agenti di polizia penitenziaria, senza però intervenire sulla dimensione terapeutica e riabilitativa, necessaria a un sistema carcerario che non dovrebbe limitarsi alla custodia. In assenza di figure quali psicologi, educatori e assistenti sociali, le carceri italiane rischiano di essere luoghi di abbandono e disperazione, privando i detenuti di qualsiasi possibilità di reinserimento. La costruzione di nuove strutture, prevista dal piano edilizio del governo, potrebbe contribuire a ridurre il sovraffollamento nel lungo termine, ma è una soluzione che non risponde all’urgenza attuale né alla crescente domanda di percorsi riabilitativi. Numerosi esperti sottolineano che tale visione della giustizia, priva di un reale intento rieducativo, rischia di generare persone più problematiche al momento della liberazione, e non migliori.
L’esperienza di El Salvador e il suo modello di carcere duro illustrano l’efficacia temporanea di una risposta repressiva alla criminalità, che però manca di soluzioni per reintegrare chi ha scontato la propria pena. La visione intransigente di Bukele, supportata dal successo nella lotta alle gang, ha migliorato la sicurezza nazionale, ma al prezzo di una rinnovata e pericolosa alienazione sociale per i detenuti. Anche in Italia, una gestione carceraria orientata esclusivamente alla cattività, senza adeguati percorsi di cura e risocializzazione, perpetua un sistema ingiusto, alimentando una crisi che, se non affrontata con politiche mirate alla riabilitazione, continuerà a produrre individui non recuperati, pronti a ritornare al crimine. El Salvador e Italia sono due facce della stessa medaglia, due esempi lontani ma drammaticamente vicini. È evidente la necessità di ripensare l’approccio piuttosto che limitarsi a isolare chi ha commesso reati. Occorre concepire la pena come un processo volto a restituire persone capaci di contribuire in modo positivo alla comunità, abbattendo la recidiva e promuovendo una giustizia autenticamente correttiva.
David Oddone
(La Serenissima)