
Qualche gaffe, promesse, rivendicazioni passate. A Porta a Porta i sette leader politici si sfidano in botta e risposta individuali da 20 minuti con Bruno Vespa vista l’impossibilità di un confronto comune.
Rispettando lo stesso ordine del sorteggio del notaio Rai con cui si sono avvicendati Luigi Di Maio, Silvio Berlusconi, Giorgia Meloni, Giuseppe Conte, Carlo Calenda, Matteo Salvini ed Enrico Letta, è possibile tracciare un bilancio delle prestazioni, rapportandolo allo stile narrativo dei singoli, alla situazione dei sondaggi e al proprio elettorato di riferimento oltre che, infine, alla credibilità rispetto agli italiani nel loro complesso.
L’esordio, quello del ministro degli Esteri Luigi Di Maio, in nessuno di questi frangenti rientra nell’eccellenza. L’ex capo del Movimento 5 Stelle è in assoluto quello che durante la serata nomina più spesso gli avversari, Conte e Salvini su tutti. Curiosamente, gli stessi con cui ha condiviso la sua prima esperienza di governo. Concentrandosi troppo sugli altri, Di Maio non fornisce ricette, si autoincensa, dopo la presentazione di Vespa che lo definisce “enfant prodige”, dicendo di avere la paternità del reddito di cittadinanza e del decreto dignità, e prendendosela col mondo intero: “Conte e Salvini non sono stati chiari sulla Russia. Sono stati ondivaghi e hanno dimostrato di avere poca coerenza“. Detto dal campione del mondo di giravolte è davvero il colmo. Su Conte poi dice che “sarebbe in grado di mettere in dubbio anche il reddito di cittadinanza“, quando invece l’ex premier è l’unico che ha sostanzialmente proposto di lasciarlo così com’è. Infine, a proposito di giravolte, parla della crisi energetica attuale citando il Tap, che non voleva. Ciliegina sulla torta, Di Maio difendendo il reddito di cittadinanza sostiene che sia più indispensabile che mai visto il momento drammatico dell’economia. In sostanza, lo strumento che avrebbe dovuto abolire la povertà ora serve più che mai visto che la povertà è decuplicata.
Dopo Di Maio, è il turno di Silvio Berlusconi, oggettivamente meno in forma rispetto agli anni d’oro in cui snocciolava numeri, cifre e stime economico-finanziarie mentre ora resta sempre sul vago. Più che sulle nuove proposte, il leader di Forza Italia si concentra più sulle esperienze passate (talvolta parecchio datate) e sulle idee già maturate negli anni come la flat tax, anche se nella spiegazione della sua efficacia nonostante l’immancabile foglio di carta con gli esempi pratici, non è impeccabile. Gaffe, poi, sull’Ucraina e sui suoi rapporti con Putin, quando sostiene che il suo amico sia caduto in una “situazione drammatica” per dover aiutare le persone del Donbass e che voleva sostituire il governo di Zelensky con “persone perbene”. Corretto da Vespa. Sul posizionamento al fianco dell’Alleanza atlantica a sostegno di Kiev, invece, nessun tentennamento, sebbene non abbia abbandonato l’idea di “restaurare” l’Unione europea.
Un assist a Giorgia Meloni, che gli succede e che si è trovata bersagliata dalle accuse di essere “amica di Putin” e un pericolo per la tenuta dell’Occidente. Nei venti minuti di colloquio col la leader di FdI non si nomina mai la parola “fascismo”, e per fortuna. Meloni si destreggia tra provvedimenti draghiani come il tetto al prezzo de gas, in fase di discussione, per proporre ricette autoctone come il disaccoppiamento del gas dal prezzo dell’energia come mezzo di contenimento dei costi e contrasto alla speculazione. Per la stessa ragione, ribadisce la contrarietà allo scostamento di bilancio. Per smontare la retorica anti-Ungheria e soprattutto anti-Polonia (suoi alleati di ferro in Unione europea) cita Giovanni Paolo II e invita i Paesi benestanti, come Francia e Germania, ma indirettamente la stessa sinistra italiana che la critica, a non abbandonare i Paesi dell’est e a non far passare il messaggio dell’Europa a due velocità. Molto efficace nel respingere le critiche sul reddito di cittadinanza, dicendosi contraria alla sua incapacità di stimolare il mercato del lavoro ma sostenitrice del suo intento di sostenere i più deboli.
Frizzante Giuseppe Conte, che conferma la buona verve delle ultime settimane che sta creando più di un problema all’elettorato del Pd, ma non solo. Perché il piano di Conte e del suo “ritorno al populismo” è quello di intercettare scontenti della sinistra, grillini della prima ora e una platea “antisistema” che si oppone all’invio delle armi all’Ucraina perché per estensione ha degli accenti anti-atlantisti e, soprattutto, anti-americani. Conte parla a questa fetta di pubblico in modo certamente efficace e che, visti gli sviluppi attuali con la mobilitazione parziale e il timore che il conflitto possa sfuggire di mano, rischia di convincere molti italiani impauriti. Le sue frasi ad effetto in questo senso sono: “La strategia anglo-americana che stiamo seguendo anche in Europa abbraccia una escalation militare senza via d’uscita“; “Non prendiamo ordini“; “Possiamo andare in Europa e nei consessi internazionali a testa alta dando un contributo leale“. Rivendicando i 209 miliardi che ottenne dall’Ue nei primi mesi di pandemia sostiene che l’Ue sull’Ucraina non stia “battendo un colpo”.
Poi le accuse al centrodestra di boicottare il reddito di cittadinanza per infiammare la platea di percettori, alcune bugie plateali come l’aumento record del Pil del suo governo che era in realtà un rimbalzo dell’anno 2020 sotto Covid o l’80% dei punti del programma grillino mantenuti (in realtà sono 2 su 10 rispetto al programma 2018), e un paio di colpi da maestro come la promessa in “stile scandinavo” della settimana di lavoro breve e l’idea che i datori di lavoro possono riscuotere il reddito dei percettori che scelgono di assumere. Un’iniziativa che, tornando al pubblico “complottista” dice che i media oscurano. Infine, una stoccata a Letta, che comunque non nomina mai come nessun altro avversario: “Se i vertici Pd cambiano o lasciano la vedovanza Draghi chissà…”
Tremolante Carlo Calenda, che da uomo delle aziende dimostra ancora una volta di non essere un capopopolo. Una buona parte della sua intervista è appiattita troppo sulla figura di Mario Draghi, a cui Calenda vuole proporre una convocazione obbligata stile “Mattarella bis” nel caso in cui il Terzo Polo dovesse raggiungere il 10% e la sinistra fare bene. Dopo le sviolinate a Draghi, Calenda tocca quantomeno per primo due temi che gli altri non avevano affrontato: sanità e scuola.
Il suo è un approccio populista al contrario. Contro la politica strillata e contro gli steccati ideologici, Calenda prova a tenere insieme il salviniano contrasto all’immigrazione illegale e alla profilazione dei migranti economici e la possibilità di fare “debito buono” non solo con lo scostamento di bilancio ma anche chiedendo l’accesso al Mes per finanziare la sanità.
Un colpo di teatro lo gioca Matteo Salvini, che si presenta da Vespa con Mario Barbuto, presidente dell’Unione italiana ciechi e candidato al Senato con la Lega. Anche lui, come Berlusconi, però, cade nella gaffe quando dice che Barbuto porterà “un occhio” nelle istituzioni per i diversamente abili. I social non l’hanno perdonato. Poi, in pochi minuti, saccheggia l’approccio del fu Forza Italia promettendo energia nucleare, Ponte sullo Stretto di Messina, Tav e termovalorizzatore e lancia stilettate alla Meloni dicendo di essere interessato all’ipotesi di un “governo Salvini” e promuovendo scostamento di bilancio e flat tax estrema che alla Meloni non piacciono granché. Infine, i cavalli di battaglia della Lega padana: il contrasto all’immigrazione come missione di vita. E gli slogan come “chi viene per spacciare, andale”. Lo show di Salvini, imprevisti compresi, ricalcano l’andamento elettorale della Lega: picchi positivi, picchi negativi e al momento una certa stasi.
In chiusura, Enrico Letta. Il leader del Pd sembra il più in difficoltà. Spiega in modo cervellotico le sue idee e si concentra sul contrasto agli altri ma soprattutto sul mantenimento dello status quo: “Il Pnrr non si tocca, il sostegno a Kiev non si tocca, l’agenda Draghi non si tocca“. Poi, dopo aver detto peste e corna della Meloni, le “scippa” il disaccoppiamento del prezzo del gas da quello dell’energia e la tesi secondo cui lo scostamento di bilancio favorirebbe solo la speculazione dei grandi conglomerati finanziari. La maggior parte delle chiose nel dibattito con Vespa riguardano non tanto i programmi del Pd quanto il suo futuro, visto che dopo gli sforzi per infangare la Meloni, Letta si gioca il posto da segretario del Pd. E a giudicare dalla prestazione, inizia ad avere paura.
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