La sinistra del non lavoro. Sindacati compresi … di Sergio Pizzolante

Nel 1969, poco prima del varo dello Statuto dei Lavoratori, riforma fondamentale per i lavoratori italiani e per la sinistra del lavoro, Gino Giugni, il più grande giuslavorista italiano, estensore dello Statuto, riformista che ha sentito nel suo corpo le pallottole delle Brigate Rosse, come altri riformisti italiani, e suoi colleghi, da Tarantelli a Biagi, era in difficoltà.
La legge era pronta, ma il PCI si opponeva.
Il PCI aveva allora potere di veto assoluto in Parlamento sulle materie sociali.
Il potere dato dalla sua capacità di riempire le piazze e dalla forza egemonica nelle redazioni dei grandi giornali.
Nei quali si consumava la corsa al compromesso fra “padroni” e sinistra.
Oltre che sulla spesa pubblica.
I “padroni” erano ben contenti di far pagare allo stato la pace nelle fabbriche.
Perché il Pci si opponeva? Perché non gli bastava l’art 18 scritto da Giugni e voluto da Giacomo Brodolini, socialista, padre dello Statuto. L’art 18 prevedeva, in origine, una tutela per i sindacalisti nelle fabbriche, non licenziabili per l’attività sindacale, non un diritto alla non licenziabilita’ per tutti, a prescindere dalle capacità, dal merito, dall’impegno.
Brodolini era perplesso, molto, disse a Giugni: “lo Statuto deve essere per i lavoratori non per i lavativi”.
Ma la spuntò il PCI al Senato.
E cosi, in Italia, abbiamo avuto lunghi decenni di grande potere sindacale e aziende nane per non sottostare all’art 18, bassa occupazione, bassa produttività, bassissimi salari.
È l’eredità storica del massimalismo sindacale e del PCI.
Questo è, in buona parte, il contributo dato al mondo del lavoro dal massimalismo di sinistra.
Oggi.
Il massimalismo si è tramutato in populismo.
Sindacale e di sinistra.
È una sinistra che si riappropria del peggio di se stessa.
Il trio Landini, Schlein, Conte, ha questa visione: premiare il non lavoro, RdC, eliminare il lavoro flessibile( job Act soprattutto) che consente alle aziende di essere flessibili e quindi sul mercato, far pagare allo stato gli aumenti di salari, montare la retorica del precariato e del lavoro “di Qualità”.
È un montaggio di nessuna qualità, politica e sindacale, che non sta in nessun quadro reale.
I dati ISTAT dicono che a febbraio 23 l’occupazione è a 23.3 milioni di persone.
Il dato più alto da quando i dati sono rilevati.
Come scrive Luciano Capone su Il Foglio.
Ed è un risultato in gran parte dovuto alla crescita del lavoro a tempo indeterminato.
E la realtà dice che le imprese, ad ogni livello, dalla grande industria all’albergo, non trovano lavoratori.
Realtà e dati ufficiali dicono che dopo il Job Act il rapporto fra lavoro a tempo indeterminato e lavoro a tempo, si è invertito.
Oggi solo il 16% dei nuovi assunti sono a tempo determinato. Prima del Job Act erano l’83%.
Abbiamo bisogno di più lavoro, maggiore produttività, più salario e la sinistra massimalista, che diventa populista, va in piazza per chiedere più spesa pubblica, più assistenza pubblica, premio per chi non lavora.
Per i “lavativi”, direbbe Brodolini.
Una sinistra seria farebbe il contrario.
Chiederebbe allo stato di incentivare fortemente il lavoro, il maggior lavoro, la produttività.
Per far crescere i salari.
Un sindacato serio rivolgerebbe alle imprese la sfida della produttività, del coinvolgimento dei lavoratori sulle scelte e sui risultati delle imprese, per far crescere stipendi, utili, qualità e dignità del lavoro.
E invece fa crescere una generazione di non lavoratori che alle imprese, nel primo colloquio per le assunzioni, fanno come prima cosa queste domande: si può lavorare in Smart? A che ora finisce la giornata? Il sabato?
Al secondo colloquio si presentano in pochi.
Devono prepararsi per il Concertone.
Brodolini si rivolta nella tomba.
Sergio Pizzolante