
Campane a morto e sirene. Questo l’incipit de LE MURA DI BERGAMO, docu-film di Stefano Savona che approda oggi al Festival di Berlino a Encounters. Siamo appunto nel marzo del 2020 a Bergamo dove è appena scoppiata un esplosione violenta e inaspettata di Covid-19. Prodotto da ILBE – Iervolino & Lady Bacardi Entertainment con Rai Cinema, il docu – in sala a metà marzo con Fandango – non risparmia nulla allo spettatore e gli fa vedere immagini forti. Malati intubati in ospedale, infermieri disperati in azione, ospedali strapieni e un centralino costretto a dire: “No non lo porti in ospedale, non c’è posto. Controlli solo se respira, se riesce almeno a dire una frase”. Ci sono poi i medici che decidono chi far vivere e morire. E questo secondo il criterio dell’età, l’aspettativa di vita. “Era una vera e propria guerra – dice a un certo punto un’infermiera – in cui i malati combattevano da soli, noi potevamo fare ben poco”. “All’inizio quando siamo stati colpiti da questa tragedia è stata una sorta di choc – dice il regista all’ANSA -. Penso alle immagini con i camion militari pieni di bare. È stata come una presa di coscienza, qualcosa che non volevamo vedere e quando era già troppo tardi per mettersi in salvo. Volevamo documentare un evento storico cercando di capire e filmare tutto il possibile. Ora, dopo tre anni – spiega Savona -, non è più importante raccontare quello che è successo, ma ricordare quello che, per necessità, abbiamo dimenticato”. E le immagini forti che si vedono? “Abbiamo lavorato in tempo reale e dunque ci sono immagini che possono dare fastidio, ma Bergamo è con noi. Molte delle persone che hanno partecipato sono qui con me a Berlino, per loro scelta. Tutti le persone intubate che si vedono sono comunque tutti sopravvissute, siamo stati molto attenti a salvaguardare la dignità e abbiamo avuto il massimo rispetto per tutti coloro che abbiamo ripreso. Se qualcuno parla in camera direttamente con l’operatore è solo perché ha voglia di parlare. Abbiamo sempre filmato da una distanza che non desse fastidio e, a volte, se qualcuno ci raccontava la sua storia lo faceva solo in maniera terapeutica”. E ancora: “Siamo arrivati negli ospedali quando c’erano già state tante troupe. All’inizio le tv sono entrate negli ospedali in maniera invasiva. Nei tg di allora, anzi, si sono viste immagini peggiori. È il caso delle sequenze del pronto soccorso, davvero mostruose, o di quelle della terapia intensiva che abbiamo ripreso sempre da una certa distanza cercando di non mostrare troppo. Comunque per i volti mostrati abbiamo avuto la liberatoria”. Come giudica questo documentario? “Tutti abbiamo vissuto in questi due anni un’esperienza individuale forte. Credo che il film sia stato in qualche modo terapeutico, ma anche molto duro. Durante il montaggio, lo confesso, ho avuto attacchi di panico. Questa storia comunque ci ha fatto prendere coscienza della nostra età, del fatto che non siamo immortali”. E conclude: “Questo è un film su Bergamo, sulla memoria, ma anche un lavoro che trascende la storia che racconta. Ci mette in relazione con la morte. Abbiamo cercato di dimenticare quanto siamo mortali, perché siamo più giovanili, ci siamo laicizzati, ma la pandemia ci ha ricordato che c’è la morte e la morte dei nostri cari. Oggi, con LE MURA DI BERGAMO, si può forse tornare a guardare quella realtà che abbiamo evitato di voler vedere per troppo tempo”.
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