Leonardo Tricarico, presidente fondazione Icsa: “Il vino di D’Alema alle coop? Magari sarebbe stato opportuno non farlo”

n-LEONARDO-TRICARICO-large570Il generale Dino Tricarico – si resta sempre generali, anche dopo la pensione – è nell’orto a piantare carciofi. “Buonissimi”, dice, “i migliori”. Come il vino di D’Alema? “Se è per questo – precisa – il mio olio è assai migliore del vino di Massimo D’Alema ma io non ho mai avviato una vera produzione”. Magari lo farà. Tricarico è presidente della Fondazione Icsa, prestigioso think tank sui temi della sicurezza e dell’intelligence, sigla che da un paio di giorni rifrulla nelle pagine dell’inchiesta della procura di Napoli sui presunti affari illeciti della cooperativa CPL Concordia di Modena, azienda leader nel settore dell’energia con mire espansive in nord Africa, Tunisia, Algeria, Libia. Il “sistema affaristico organizzato e gestito anche a fini corruttivi” organizzato dalla Cpl Concordia aveva individuato anche nella Icsa un possibile partner istituzionale su cui “investire”. Dove per “investire” si intende un sistema opaco di dare e avere.

Generale Tricarico, che effetto le fa essere nelle carte dell’inchiesta di Napoli?

“Vedere il nostro nome associato a episodi, per quanto presunti, di malaffare non è certo una bella scoperta. Anche se, diciamolo subito, è chiaro anche dagli elementi già emersi che la nostra fondazione è stata intravista come un soggetto non affidabile nel sottostare ad un rapporto di dare-avere”.

Ne è sicuro?

“Guardi, l’altro giorno, appena è saltato fuori il nome di Giovanni Santilli, il nostro vicesegretario generale, me ne sono subito occupato. Ho chiesto informazioni ma sono stato rassicurato: non abbiamo nulla da temere. E poi, se non ho letto male i giornali, questo Simone (Francesco, l’uomo delle relazioni esterne della Cpl e regista del sistema, ndr) mi definirebbe “un mezzo rincoglionito” e “inaffidabile”.”

Quante donazioni ha fatto la Cpl Concordia?

“Un paio, l’anno scorso e quest’anno. Quella di quest’anno non so neppure se è stata ancora saldata del tutto. Si tratta di quote di ventimila euro l’anno”.

Come funziona il sistema di finanziamento delle Fondazioni?

“Siamo nati nel 2009, l’idea del presidente emerito Francesco Cossiga e di Marco Minniti. Avevamo capito, a ragione, che in Italia mancava un think tank specializzato sui temi della sicurezza che è la grande sfida del secolo. Trovammo una dozzina di finanziatori istituzionali e privati ed eravamo convinti di renderci autosufficienti in un paio d’anni. Purtroppo non è andata così: nonostante Icsa abbia una produzione scientifica di 10-12 lavori importanti l’anno, siamo sempre costretti a fare fund raising presso privati”.

Donazioni private?

“Tutte. Noi chiediamo una quota associativa annuale di 20 mila euro l’anno. Certo, se poi sono meno, li prendiamo volentieri lo stesso”.

Quanto costa Icsa?

“Premesso che nel nostro comitato scientifico ci sono i migliori investigatori, esperti di terrorismo e di intelligence, per lo più persone andate in pensione, ogni anno ci servono circa 250 mila euro per pagare l’affitto della sede, i canoni di servizi e produrre quelle indagini che poi pubblicizziamo in convegni spesso aperti anche alla stampa”.

Perché non rendete pubbliche le donazioni? In questo modo, come dice Cantone, si eviterebbe anche il rischio che “le Fondazioni possano diventare strumenti illegali di pressione, traffico di influenze, corruzione”.

“Sono assolutamente d’accordo con Cantone. Sono i privati che potrebbero non gradire e chiedere la riservatezza. Con rammarico dico che finora mi è mancato il tempo di scrivere un codice etico vincolante per tutti. Cosa che adesso faremo subito”.

Come selezionate i donatori?

“I frati cercatori, come li chiamo, quelli che cercano, siamo io, Santilli, il direttore Italo Trento e il senatore Naccarato però da un po’ di tempo meno attivo. Dopo di che sappiamo che Roma da questo punto di vista è un campo minato. Specie per una fondazione come la nostra che ha una capacità intrinseca, oggettiva e alta di relazioni strategiche che la rende di per sé appetibile per questi soggetti che sotto mentite spoglie si aggirano nel panorama romano. Ecco, voglio dire che si fa una grande fatica a capire chi si ha di fronte. In genere non chiedono mai nulla esplicitamente, però se l’aspettano, ti fanno capire e non capire. Noi siamo sempre molto chiari: offriamo briefing, facciamo consulenze, punti di situazione. Basta”.

Vabbè, e come è andata con la CPL?

“Non so, devo ancora ricostruire. Posso dire però che è una grande cooperativa storica e che nulla ostacolava una donazione”.

Che c’entra un’azienda che si occupa di energia con un think tank di sicurezza?

“Oggi la sicurezza è tutto, per ogni azienda. Cpl poi ha, o aveva, mire e interessi all’estero dove il profilo della sicurezza è ancora più delicato. È chiaro che, davanti a un nuovo donatore, noi cerchiamo prima di tutto un’affinità di interessi”.

Il mondo delle fondazioni è sotto inchiesta.

“Lo so, e non da oggi. Mi chiedo perché in Italia non si riesca a crescere sotto questo profilo. Negli Stati Uniti i think tank sono eccellenze, riescono a vivere con il fund raising e sono utili alla collettività. Noi invece dobbiamo arrancare e vendere cara la pelle pur di andare avanti. Un collega americano mi ha detto: ‘A Washington voi sareste le lepre inseguita dagli altri’. Qui invece siamo noi a dover inseguire gli altri per poter sopravvivere. Icsa, proprio per sottrarsi a questo rischio, sta cercando di diventare ente formatore, dare orientamento professionale nella sicurezza a persone e aziende. Lo dovremmo fare in partnership con il ministero dell’Interno visto che abbiamo stipulato un accordo in tal senso e che la quasi totalità dei nostri esperti viene da lì”.

Lei è stato consigliere militare di D’Alema. Anche l’ex premier è finito nelle carte dell’inchiesta. Lei avrebbe venduto il vino a un donatore?

“Io fui chiamato a palazzo Chigi perché ero vicecomandante della coalizione Nato ai tempi della guerra in Kosovo. Avevo, in quella veste, un rapporto di quotidianità con l’allora sottosegretario Marco Minniti. Da qui nacque il mio rapporto di fiducia con D’Alema. Sul vino di D’Alema posso dire che ci sono innamoramenti in età non più giovane – ad esempio l’attività di agricoltore – per cui il vino, come il mio olio, possono diventare come un figlio: si farebbe tutto. Trovare chi compra il vino è un po’ come trovare il posto di lavoro al proprio figlio. Magari, sarebbe stato opportuno non farlo”.

Quindi lei assolve anche l’ex ministro Lupi?

“No guardi, sono cose completamente diverse . D’Alema non ha incarichi pubblici, non aziona leve e non decide. Lupi invece era ministro. E Incalza un uomo potentissimo di cui non ha saputo fare a meno”.

Lei è stato un uomo in divisa e conosce il valore info-investigativo degli ascolti. Vanno limitati?

“Come strumento d’indagine mai. Sotto il profilo della divulgazione, e quindi dell’interesse pubblico, dico che, fino a prova contraria, un ex politico è un privato cittadino. Un ministro ha invece degli obblighi anche di pubblicità con i cittadini”.

fonte: huffingtonpost.it