È certamente un fatto positivo vedere come la politica e la società civile si stiano mobilitando per affrontare la grave questione di quello che a San Marino (e non solo) viene chiamato «inverno demografico». Se possibile, con una profonda domanda, resa evidente nell’incontro promosso da Repubblica Futura sull’argomento, quando il dott. Mauro Sammaritani, dell’Ufficio Informatica, Tecnologia, Dati e Statistica della nostra Repubblica, ha ricordato il «Tasso di fecondità» di San Marino, nel 2023: 1,08, a fronte dell’Europa (1,38) e dell’Italia (1,20). Certamente un dato preoccupante che fa riflettere, anche soprattutto se si pensa che la situazione del welfare in Repubblica non è tra le più problematiche, anzi.
Ciascuno può e deve, di fronte al problema, riflettere e esprimere il proprio parere, indicare la soluzione che ritiene più opportuna e adeguata. Nella consapevolezza che tanti sono i fattori in gioco e che non esistono soluzioni magiche, e neppure immediate. Quello di cui stiamo parlando è un fenomeno frutto di una lunga storia e di tanti elementi caratterizzanti.
Personalmente ritengo che sia in gioco una grave questione culturale. Se mi è consentito, vorrei richiamare lo scontro tra quella che il Papa Giovanni Paolo II chiamava, nella enciclica Evangelium vitae, la lotta tra la cultura della vita e la cultura della morte. (E non ripeto qui il mio disappunto nei confronti di una mentalità che continua a interpretare la soppressione di un essere umano mediante l’aborto, come un diritto umano).
Vorrei suggerire ai tanti concittadini pensosi e desiderosi di trovare una risposta adeguata a quanto stiamo vedendo, con attenzione preoccupata, il pensiero che Giovanni Paolo II ha indirizzato alle famiglie, con una Lettera appassionata e commovente. E credo che quanto ivi espresso, pure se conseguenza di quella fede che gli fa dire che il bene della vita umana, di ogni uomo, è quella «buona notizia» che i cristiani sentono fare parte della loro fede, questo suo argomentare tocchi le corde più profonde di ogni cuore umano.
Forse qui si tocca l’autentica «laicità» del pensiero, la sua universalità capace di rialzare lo sguardo dell’uomo a ciò che è veramente degno della sua umanità, come ci hanno ricordato i grandi dell’umanità. Penso a quanto scriveva anni fa il grande Pasternak: «Aspettate, ve lo dico io quello che penso. Penso che se la belva che dorme nell’uomo si potesse fermare con una minaccia, la minaccia della prigione o del castigo d’oltretomba, poco importa quale, l’emblema più alto dell’umanità sarebbe un domatore da circo con la frusta, e non un profeta che ha sacrificato se stesso. Ma la questione sta in questo, che, per secoli, non il bastone ma una musica ha posto l’uomo al di sopra della bestia e l’ha portato in alto: una musica, l’irresistibile forza della verità disarmata, il potere d’attrazione del suo esempio. Finora si riteneva che la cosa essenziale del Vangelo fossero le massime e le regole morali contenute nei comandamenti, mentre per me la cosa principale è che Cristo parla con parabole tratte dalla vita d’ogni giorno, spiegando la verità al lume dell’esistenza quotidiana. Alla base di questo sta l’idea che i legami mortali sono immortali e che la vita è simbolica perché ha un significato.»
Ecco questo spunto di riflessione che potrebbe indicare una pista di confronto tra tutti noi:
«Ma è poi vero che il nuovo essere umano è un dono per i genitori? Un dono per la società? Apparentemente nulla sembra indicarlo. La nascita di un uomo pare talora un semplice dato statistico, registrato come tanti altri nei bilanci demografici. Certamente la nascita di un figlio significa per i genitori ulteriori fatiche, nuovi pesi economici, altri condizionamenti pratici: motivi, questi, che possono indurli nella tentazione di non desiderare un’altra nascita. In alcuni ambienti sociali e culturali poi la tentazione si fa più forte. Il figlio non è dunque un dono? Viene solo per prendere e non per dare? Ecco alcuni inquietanti interrogativi, da cui l’uomo d’oggi fa fatica a liberarsi. Il figlio viene ad occupare dello spazio, mentre di spazio nel mondo sembra essercene sempre meno. Ma è proprio vero che egli non porta niente alla famiglia ed alla società? Non è forse una «particella» di quel bene comune, senza del quale le comunità umane si frantumano e rischiano di morire? Come negarlo? Il bambino fa di sé un dono ai fratelli, alle sorelle, ai genitori, all’intera famiglia. La sua vita diventa dono per gli stessi donatori della vita, i quali non potranno non sentire la presenza del figlio, la sua partecipazione alla loro esistenza, il suo apporto al bene comune loro e della comunità familiare. Verità, questa, che nella sua semplicità e profondità rimane ovvia, nonostante la complessità, ed anche l’eventuale patologia, della struttura psicologica di certe persone. Il bene comune dell’intera società dimora nell’uomo, che, come è stato ricordato, è «la via della Chiesa». Egli è anzitutto la «gloria di Dio»: «Gloria Dei vivens homo», secondo la nota affermazione di sant’Ireneo, che potrebbe essere tradotta anche così: «La gloria di Dio è che l’uomo viva». Siamo qui in presenza, si direbbe, della definizione più alta dell’uomo: la gloria di Dio è il bene comune di tutto ciò che esiste; il bene comune del genere umano.» [Lettera di Giovanni Paolo II alle Famiglie]
Con queste considerazioni ci troviamo in compagnia con i grandi uomini della nostra storia, che hanno saputo indicare la grandezza della nostra umanità e il compito di custodirla e difenderla. E di questa storia vogliamo essere degni. E capaci di costruire con mattoni nuovi: «Nei luoghi deserti / noi costruiremo con nuovi mattoni. / Ci sono macchine e mani / e creta per nuovi mattoni / e calce per nuovo cemento. / Dove i mattoni sono crollati / noi costruiremo con nuove pietre. / Dove le travi sono marcite / noi costruiremo con nuovo legno. / Dove la parola non è pronunciata / noi costruiremo un nuovo linguaggio. / C’è un lavoro comune / e una fede per tutti, / un compito per ognuno, / ogni uomo ha il suo lavoro». [Eliot]
don Gabriele Mangiarotti